Gesù, maestro dei professori di religione, alle domande preferiva rispondere con un’altra domanda o con un racconto, la parabola, che poi è un interrogativo in forma narrativa. La domanda che Gesù pone al suo interlocutore è al tempo stesso una chiamata, una vocazione, che fa appello alla responsabilità degli uomini, gli unici esseri viventi che sono “capaci di rispondere” (respons-abili), come cerco di spiegare ai miei studenti, sottolineando l’importanza di questa prerogativa umana, in cui risiede la dignità stessa di ogni persona.
Il narrare parabolico di Gesù è un invito all’esercizio della libertà e dell’intelligenza, un invito a tendere l’orecchio e il cuore, ad allargare la propria immaginazione, demolendo così le idee su Dio che negli anni si sono accumulate e incrostate diventando “ideologie”; proprio per questa libertà vivificante lo stile di Gesù è modello per ogni insegnante che si dedica alla crescita globale dei suoi alunni. E c’è qualche studente che va anche oltre, supera il “maestro”, come ad esempio Federica, 16 anni, che mi pro-voca con l’estratto del dizionario etimologico relativo alla parola italiana “parola”, originata proprio dalla contrazione di “parabola”: tutto nasce lì, dalle narrazioni di Gesù, protagonista narrante del più famoso e commovente dei racconti.
Federica sa che mi occupo delle “parole perdute”, di quel linguaggio religioso e cristiano che oggi sembra non aver più alcuna cittadinanza nel lessico degli adolescenti del terzo millennio, non posso quindi che premiare la sua generosità con una citazione letteraria che evidenzia la forza del parlare parabolico di Gesù: «Per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita di ogni giorno», scrive Boris Pasternak nel suo capolavoro: «Il mondo antico finì in Roma, in quell’orgia di cattivo gusto, in oro e marmi, venne lui, leggero e vestito di luce, precipuamente umano, volutamente provinciale, il Galileo, e dal quel momento i popoli e gli Dei cessarono di esistere e cominciò l’uomo, l’uomo falegname, l’uomo agricoltore, l’uomo pastore tra un gregge di pecore al tramonto, l’uomo il cui nome non suonava solenne e feroce, l’uomo generosamente offerto a tutte le ninne-nanne materne del mondo».
Anche le parabole stanno scomparendo, come evaporando dal paesaggio quotidiano di questi giovani: essi ne rammentano alcuni titoli, i più celebri, il buon samaritano, i talenti, il buon pastore, ma spesso il ricordo è confuso, pure nel caso della parabola del figliol prodigo, che parla proprio di questo, di un giovane che taglia i ponti con il mondo del padre, un mondo perduto, ma che poi, nel momento più buio, ne avverte una fame pungente e una struggente nostalgia, quasi fosse una ninna-nanna.
(il presente articolo è apparso il 22 ottobre nella rubrica Parole perdute di Avvenire)