Il grande Fred

buscaglioneMa il finale è di certo più teatrale 
così di ogni storia ricordi solo/ la sua conclusione/ così come l’ultimo bicchiere/ l’ultima visione/ un tramonto solitario/ l’inchino e poi il sipario”. Così Niccolò Fabi in Costruire, una delle più belle canzoni italiane degli ultimi anni, coglie la struggente bellezza del finale, la medesima suggestione che ha colpito Maurizio Ternavasio, autore di questo saggio biografico su Fred Buscaglione che si legge “a ritroso”. Un po’ come nei film di Billy Wilder, La fiamma del peccato o Viale del tramonto, chi parla è il morto di cui già scopriamo l’identità e il tragico destino sin dal primo fotogramma, così è in questo libro che dedica il primo capitolo a quel 3 febbraio 1960, all’alba, quando il corpo di Ferdinando Buscaglione, in arte Fred, fu ritrovato agonizzante a bordo della sua Ford Thunderbird rosa che si era scontrata con un tir all’incrocio di viale Rossini con via Bertoloni a Roma, proprio di fronte alla residenza dell’ambasciatore degli Stati Uniti, lui, Fred, che era stato a modo suo un singolarissimo “ambasciatore americano” in Italia.

A questa coincidenza spaziale va aggiunta un’altra di tipo temporale: in quello stesso giorno usciva in Italia La dolce vita di Fellini, film spartiacque che sancì la fine del sogno degli anni ’50 per introdurre con un tocco di più amara consapevolezza gli anni ’60, quella stessa amarezza che tutta l’Italia provò nell’apprendere che il piccolo grande Fred li aveva lasciati a nemmeno quaranta anni.

Ripercorrere quei quattro decenni è un modo anche per raccontare l’Italia (e soprattutto Torino) prima e dopo la guerra, dalla povertà più nera alla ricchezza più imprevista e improvvisa, con tutti i contraccolpi che tutto questo ha comportato. Il piccolo ma tosto Ferdinando, grande musicista e violinista, ha tenacemente combattuto la sua battaglia, attraversando questo quarantennio con una parabola troppo breve, bruciando presto la sua fiamma spinto da un sentimento prevalente sugli altri, l’odio per la miseria.

Fred, il duro di Chicago-Torino che sgominava bande criminali per bionde mozzafiato, nella vita privata era in realtà un uomo tranquillo, tendenzialmente triste, con una sua purezza rimasta incontaminata anche quando nel giro di due anni, tra il 1958 e il 1959, era passato dopo una dura gavetta alla vetta in tutti i campi dello spettacolo, dalla musica dal vivo alla televisione al cinema: proprio in quei giorni di febbraio avrebbe dovuto filmare l’ultima scena di Noi duri, il primo film da protagonista, insieme a Totò (il titolo vero doveva essere A qualcuno piace Fred, facendo il verso sempre a Billy Wilder).

(la presente recensione de “Il grande Fred. Fred Buscaglione, una vita in musica” di Maurizio Ternavasio, Lindau, pp.228, euro 14,00 – è apparsa su Il Foglio il 23 novembre 2016)
https://www.youtube.com/watch?v=e58eoAc2sbw

Babel

babelE’ facilmente comprensibile il titolo che i Mumford & Sons hanno voluto dare al loro secondo album: Babel. La confusione è la situazione inevitabile in cui questi quattro giovanotti inglesi sono piombati all’indomani del 5 ottobre del 2009 quando uscì il loro primo album, Sigh no more che in meno di tre anni li ha resi a livello mondiale la rock-band più famosa del momento.

[questo articolo è stato pubblicato sul n.1/2013 de La civiltà cattolica del 5 gennaio 2013]

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Tempest

Dopo un’attesa di tre anni dall’ultimo album (Together trough life, il titolo è un verso di Whitman) l’11 settembre 2012 è uscito il 35^ album di Bob Dylan con il titolo Tempest. Un disco apocalittico, che parla della fine, una fine colore rosso-sangue come è già evidente dalla copertina del cd, al punto che molti l’hanno collegato all’attentato delle Torri Gemelle, ma in realtà l’anniversario è un altro, l’esatto cinquantesimo anniversario dell’uscita del primo long-playing del famoso cantautore del Minnesota.

Le prime otto canzoni di Tempest convergono verso la nona e penultima, la grandiosa title track, una ballata a ritmo di valzer che sembra essere fuoriuscita da un film western di John Ford, lunga 14 minuti e composta da 45 quartine rimate, basata su una melodia della Carter Family e interamente dedicata all’affondamento del Titanic (la coincidenza più “tonda”: cento anni esatti dal naufragio più famoso del mondo), l’apocalisse moderna per eccellenza, non a caso Dylan inserisce nei suoi versi il capitano che legge proprio The Book of Revelation, riempiendo di lacrime la sua tazza da tè. Questo convergere è chiaro sin dalla prima canzone, The Duquesne Whistle, in cui si parla di un fischio, forse quello di un’acciaieria ma anche quello della nave, del Titanic: il viaggio comincia e lo fa con i migliori auspici, con un’aria spensierata e toni dolci (quella delle prime due canzoni) ma l’apparenza inganna. Già nel terzo brano la musica cambia: Narrow Way è un blues ossessivo che ci avverte che la strada si fa più stretta ma è la dolente canzone successiva a contenere il senso dell’intera raccolta: Long and Wasted Years è la più breve ma forse la più bella delle dieci canzoni, un brano epico per la forza della musica (la sensazione è che descrivi la scena di un mondo intero che crolla) quanto semplice per il testo (un dialogo notturno tra un uomo e una donna che parla confusamente nel sonno). Lui le dice: Tu non devi andartene, sono appena venuto da te perché sei mia amica/ Penso che quando avrò girato la schiena/ Tutto il mondo dietro me sarà bruciato. L’apocalisse in una stanza da letto, nelle parole smozzicate di un dialogo praticamente impossibile perchè la donna c’è ma non c’è, una scena che per un “dylanologo” italiano ricorda da vicino i racconti di Raymond Carver. Il tema del tempo wasted, guastato, dello “spreco” e della “vanità” è un tema antico nei versi di Dylan che già nel 1962 in uno dei suoi brani più noti cantava: “Avresti potuto fare di meglio ma non mi interessa /
Hai solamente sprecato il mio tempo prezioso 
/ Ma non pensarci, va tutto bene”.

Dopo il quinto brano che ha il sangue già nel titolo (Pay in blood) si apre la visione più apertamente apocalittica della raccolta, Scarlet Town in cui la rockstar di Duluth canta sopra un tappeto lacerante di violino: “Nella Città Scarlatta, la fine è vicina/ Le sette meraviglie del mondo sono qui/ Il cattivo ed il buono vivono fianco a fianco/ Tutte le forme umane sembrano glorificate”.

Gli echi biblici sono così evidenti che… [per il resto dell’articolo apparso sul numero 3897 del 3 novembre 2012 de La Civiltà Cattolica, cliccare qui:

http://www.laciviltacattolica.it/it/quaderni/articolo/3002/tempest/ ]

La bella forza sana del rock

Sono stato venerdì scorso in un piccolo bel locale di Roma, il Foollyk, per ascoltare il concerto dal vivo di Antonio Zirilli & the Blastwawes. Non era la prima volta che li ascoltavo, mi lega con il leader del gruppo un’amicizia di quasi 30 anni, ma sabato scorso mi sono, ancora una volta, riconciliato con la musica rock e, grazie alla musica, con il mondo. La forza che ha la musica forse non ce l’hanno le altre forme artistiche, nemmeno la poesia, la letteratura, la pittura.. C’è qualcosa nella musica ad un tempo di viscerale e di celestiale, una forza che viene da fuori (da dove arriva?) ma che ritrovi dentro, a livello proprio di pancia e questo effetto di dentro/fuori ti porta ad esclamare che quella musica che stai ascoltando, anche se è la prima volta che la senti, è come se l’avessi da sempre sentita. La musica come l’amore spezza e azzera il passare del tempo. Provate, ad esempio, sentire “Tempest”, l’ultimo disco di Bob Dylan, e ascoltate la title track e percepirete subito questo effetto, pensando: “questa musica è sempre esistita, ma dov’era finita fino ad oggi?”. I grandi musicisti sembrano in questo senso come dei minatori che scavano nella memoria del mondo e tirano fuori qualcosa di cui avvertivamo la presenza ma non riuscivamo mai a bloccare, a cristallizzare ma solo a rievocare, inseguire.. scoprono gemme preziose che ripuliscono e offrono alla nostra contemplazione. Ho citato Dylan che è uno dei “numi tutelari” di questo gruppo di giovani musicisti italiani, i Blastwawes, le “Onde d’urto” che in effetti producono un bell’impatto nell’ascoltatore, soprattutto se si tratta di una performance dal vivo.

Dopo il concerto ho ripreso in mano il loro album d’esordio, Trying to get out, del 2010 e riascoltarlo è stato un vero piacere. Dylan si sente molto, ad esempio, in Tacarigua de Mamporal (un bel pezzo quasi tex-mex con tanto di violino e slide guitar suonati da Stefano Tavernese), uno dei pezzi più belli come anche gli altri scritti insieme da Antonio Zirilli e la moglie Tita Misasi, in particolare One big lie che forse è il pezzo migliore in assoluto, anche grazie all’interpretazione di Joe D’Urso che accompagna Zirilli nel canto. Il sound dylaniano è peraltro evidente in un’altra canzone che non compare in questo album ma in un album-tributo a Springsteen (For You n.2, sempre del 2010) che vede Zirilli impegnato in una rivisitazione di Growin’ Up del Boss che assomiglia da vicino a Every Grain of Sand di zio Bob. Il rock sano, energetico, vitale di Springsteen è il vero alveo in cui si muove questa allegra banda di rockers nostrani e basta affacciarsi ad uno dei loro concerti per rendersene conto. Già il primo pezzo dell’album, con un titolo-citazione come It’s still hard to be a saint in the city segnala l’omaggio al Boss del New Jersey (tra l’altro è noto che la mamma di Bruce è italiana e fa proprio Zirilli di cognome, il sangue è sangue) e altri pezzi come A weird light e soprattutto Run through the rain confermano piacevolmente l’imprinting spingsteeniano, confermato anche dalle presenze nell’album (e nel repertorio di cover eseguite dal vivo) di tutto l’entourage che ruota intorno a quella musica lì, dal già citato Joe D’Urso a Willie Nile per fare giusto alcuni nomi.

L’amico Davide Rondoni, poeta di Forlì, sostiene che la grandezza del popolo italiano (e della sua arte) sta nel suo essere ad un tempo mistico e popolare e cita Dante come esempio massimo di questo meraviglioso mix. Lo ha colto nel suo ultimo docu-film il regista americano Jonathan Demme (grande springsteeniano anche lui) che ha dedicato un intero documentario alla musica di Enzo Avitabile (Enzo Avitabile – Music Life) recentemente applaudito al Festival di Venezia.. è vero che molte volte i nostri talenti noi non li vediamo e devono venire dall’estero per mostrarceli. Mi viene in mente questo binomio (mistico-popolare) perchè è questa la direzione verso cui si muovono anche Antonio Zirilli & The Blastwawes: durante il concerto di sabato scorso infatti ad un certo punto è intervenuto il musicista romano Valerio Billeri che, insieme a Zirilli, hanno dato un assaggio del loro prossimo progetto, un album per metà in dialetto romanesco (Billeri) e per l’altra metà in dialetto siciliano (Zirilli), forse il momento più intenso, divertente, trascinante dell’intero concerto. A due anni di distanza dalla prima positiva prova, ora ci aspetta una bella promessa, questo album ancora senza un nome, mistico e popolare, “back to the roots“, secondo la migliore tradizione della musica (italiana, americana, mondiale). Non perdetevelo.

Bob tra Woody (Allen) e Charlie (Chaplin)

(Questo articolo è apparso su Il Foglio il 29/06/2006, lo ripubblico in attesa di ritornare su Dylan e sulla sua Tempest).

Siamo ancora in piena Dylan-mania. Non c’è niente da fare: circa ogni dieci anni, ciclicamente, rispunta fuori l’ormai vecchio menestrello del Minnesota (sessantacinque anni compiuti il 24 maggio scorso) e diventa il centro di tutto quello che si muove nell’universo della musica leggera, e oltre. Dopo essere sopravvissuto agli anni Sessanta che lo hanno consacrato come “poeta” del rock, ecco a metà dei Settanta il Dylan gipsy che con la sua carovana sgangherata di gitani viaggia per l’America cantando per la libertà del pugile di colore Rubin Hurricane Cartes, poi il Dylan cristiano, che ha gettato nello sconcerto (quasi) tutti, poi, a metà degli anni Ottanta, di nuovo il Dylan arrabbiato rockettaro che si dichiara “Jokerman”, buffone e infine il redivivo che ogni tanto emerge dal suo neverending-tour con perle ancora da offrire come “Time out of mind”, un disco che nel 1997 vince pure diversi Grammy Awards. A metà degli anni Dieci del terzo millennio abbiamo il Dylan che sbanca al cinema (“No Direction Home”, splendido documentario di Martin Scorsese e “I’m not there”, film biografico di Todd Haynes con sette attori che interpreteranno Dylan, tra cui Richard Gere e Cate Blanchett), a teatro (a Broadway in un musical in grande stile di Twyla Tharp intitolato “The times they are a-changin’”), e infine il nuovo disco, Modern Times e, per l’Italia, il libro dei testi, tradotti, finalmente, tutti.

Il titolo chapliniano del quarantaquattresimo album della più prolifica rock star non sorprende più di tanto: Dylan, anche fisicamente, ha molto di Chaplin, lo aveva sin dall’inizio, quando era un mix tra Charlot e James Dean, ma pian piano (anche per l’accumularsi delle rughe del tempo), il pubblico dei “dilaniati” si è reso conto che il suo pupillo, oltre la seriosità con cui spesso diventa argomento di chi pensa di averlo capito, possiede in effetti un enorme potenziale comico. E’ un po’ come Fellini, altro artista spesso equivocato, frainteso a volte anche da se stesso, al punto che il regista riminese fu costretto durante le riprese di Otto e mezzo ad appiccicare sulla cinepresa un biglietto con sopra scritto: “Ricordati che è un film comico”. Fellini, come Dylan, sono due artisti molto divertenti, a modo loro due geni comici. Chi negli ultimi dieci anni è andato a vedere i concerti di Dylan (che periodicamente torna in Italia, anche quest’estate sarà a Roma e a Paestum) si è reso conto di quanto il più delle volte lo show sia divertito e divertente. Sul palco, questo artista che oltre a cantare rimane quasi del tutto muto, si muove e si comporta in un modo che è indefinibile ma sicuramente comico, quasi una marionetta che sgambetti convulsamente e rida improvvisamente per qualche segreto che coglie solo lui. L’ironia e l’umorismo hanno sempre innervato la sua produzione, ma negli ultimi anni, sotto certi aspetti, questa tendenza si è acuita, anche a livello fisico. Quando, premiato con l’Oscar per la migliore canzone dell’anno, Dylan si esibì cantando “Things have changed” con tanto di cappello e baffetti, a molti è parso di rivedere il volto del Chaplin anziano, così come nello spot televisivo che Dylan ha girato insieme alla splendida Adriana Lima prestando la sua “Love sick” alle richieste della marca di lingerie femminile “Victoria’s Secrets”(scatenando le ire dei suoi fan più intellettuali e, quindi, più conservatori): il suo incedere, l’abbigliamento e gli sguardi non sono quelli di un attore consumato (non lo sarà mai, nonostante i ripetuti tentativi cinematografici), ma hanno un indiscutibile effetto ironico e comico. Questo quarantaquattresimo album comunque rende già superato l’immane lavoro che Alessandro Carrera, massimo esperto italiano di Dylan, ha compiuto nel tradurre i trecentocinquantacinque testi raccolti nel monumentale volume Bob Dylan. “Lyrics 1962-2001” (1.225 pagine, 60 euro) edito ad aprile da Feltrinelli. Volume “superato” ma davvero ben arrivato, visto che colma un vuoto di oltre vent’anni: le precedenti raccolte italiane dei suoi testi erano ferme al 1985. Un’opera fondamentale, questa di Carrera, che soddisferà il vero fan di Dylan, quello disposto a tirar fuori sessanta euro, quello ben rappresentato dalla battuta che lo stesso Carrera riporta nel suo precedente saggio sul cantautore americano “La voce di Bob Dylan” (Feltrinelli 2001): “Faccia pure quello che vuole, basta che non smetta di cantare, la dannazione di chi ha una voce come la sua è di essere condannato a riempirla di parole”. Ecco infine, con questo libro, le parole di Dylan, quelle che ripete quasi ogni sera, generalmente senza aggiungerne altre, per le poche migliaia di persone che fedelissime accorrono a vederlo un po’ dappertutto in giro per il mondo. Adesso si possono finalmente gustare e comprendere meglio grazie alla bella, precisa, a volte audace traduzione di Carrera sapendo che il modo migliore per farlo è riascoltare le canzoni, cosa che ha fatto lo stesso traduttore durante questa impresa durata circa tre anni. Il problema, anche per la traduzione, è che Dylan è un artista infinito, nel senso che, dice Carrera: “Non esistono canzoni brutte di Dylan ma solo canzoni che ancora non hanno trovato la loro giusta esecuzione (da qui le continue rivisitazioni dal vivo), così come non esistono testi brutti di Dylan; esistono solo quelli finiti e quelli ancora da finire. Il caso più evidente sono i testi dei Basement Tapes. Ci sono canzoni insomma che sono ancora “cantieri aperti”, quindi è davvero arduo definirne una traduzione”.

Scopriamo quindi che le trecenticinquantacinque canzoni non sono tutte le canzoni di Dylan (“ce ne sarebbero almeno altre quaranta, scritte insieme ad altri, sparse qua e là… forse non lo sa nemmeno Dylan”) e altre sono quindi in arrivo ad indicare nel carattere dell’incompletezza forse la cifra dell’intera opera di Dylan, un enorme work in progress che va letto come un’unica, intera e infinita opera, secondo quanto già indicato da Carrera nel saggio del 2001: “Come nel resoconto di un sogno, come in un delirio, come in Finnegans Wake, solo se consideriamo l’opera di Dylan un unico esteso monologo, lentamente tutto vi prende senso. Ma non un senso. Molti sensi che convivono incompatibili, e dei quali l’autore non ha la chiave più di noi che ci ostiniamo a decifrarli”.

Prolificità e incompletezza; due facce della stessa medaglia, due aspetti fondamentali per comprendere il mosaico-Dylan. Il fatto poi che Dylan continui a suonare (è dal 1988 che il nostro viaggia sulla media di almeno cento concerti all’anno) e a comporre canzoni lo rende assimilabile ad un altro genio del cinema, Woody Allen, non solo perché l’ultimo, anzi il penultimo, disco di Dylan, Love & Theft, amore e furto, già dal titolo è un album “alleniano” (e poi nell’ascolto subito richiama le musichette che aprono, accompagnano e chiudono le commedie di Allen: una specie di combinazione di swing, standards, parlor songs con un tocco di country e canzoni “da vaudeville”), ma anche perché tra i due non c’è ovviamente solo la radice ebraica ma anche questa iper-prolificità insieme ad uno sanissimo anti-intellettualismo, molto americano e che spesso, in entrambi i casi, non è stato colto da questa parte dell’oceano. Allen e Dylan, ognuno nel proprio campo, a dispetto dell’età, sono forse gli artisti più prolifici oggi in attività. Questa iperproduttività, che spesso penalizza la qualità dei risultati (è inutile dire che il peggior film di Allen, come la peggiore canzone di Dylan, sono comunque prodotti bellissimi in relazione a quanto si vede e si sente in giro), ma che fa la gioia dei fan irriducibili dei due grandi artisti, induce però uno strisciante sospetto che si consolida se poi si va a vedere la loro a dir poco caotica vita privata e familiare: il sospetto che si tratti di due artisti disperati la cui disperazione invece di paralizzare, stimola la creatività. Scrivere e suonare o filmare diventano così una forma di esorcismo contro l’angoscia e il vuoto di una vita tutta vissuta No Direction Home.