Un paese da barzelletta

Ieri ho visto in TV Renzi che, a fronte dell’ennesimo giro di valzer delle affermazioni di Di Maio, definiva il Movimento5Stelle “la Casaleggio  e dissociati”. Passabile battuta, fa sorridere. Mi ha fatto pensare. Qualche minuto dopo, sempre in TV sono apparsi altri politici e giornalisti in questi lunghissimi talk-show che da oltre 25 anni hanno sostituito il Parlamento. Mi hanno colpito in particolare Travaglio e Scanzi che hanno continuato a fare quello che fanno da anni: i comici. Non di professione ovviamente, non fanno mai ridere, ma così, da dilettanti quali sono.Non c’è nessuna finalità di informazione nei loro discorsi ma solo il commento teso alla battuta finale, al gioco di parole, proprio come Renzi ma come la maggior parte degli altri protagonisti della scena politica e mediatica italiana. Tanto è vero che i comici oggi che fanno satira politica sono in crisi, gli hanno tolto il lavoro e balbettano gag prive di alcuna vis comica. Poi in TV, tra applausi scroscianti e tifo da stadio, è arrivato Salvini che su questa dimensione della “simpatia” li batte tutti e infatti sta volando alla grande nei sondaggi. Ma anche Di Maio non è da meno come aspirante cabarettista, non a caso fa parte di un movimento, creato da un comico di professione (tanti anni fa faceva pure ridere), che è rimasto fedele al fondatore; il suo humour è quello di chi dice le parolacce, che fa il volgare, il sudicione teso a scandalizzare. Sarà pure vestito molto “carino”, Di Maio, ma il suo linguaggio in sostanza resta quello del VaffaDay. La sua totale incoerenza, che ormai viaggia a ritmo quotidiano, e il suo continuo danzare tra un’affermazione e il suo contrario, sono atteggiamenti che fanno parte dello stesso spartito: l’irrivenza, lo scherno e lo scherzo, il voler prendere in giro tutto e tutti, le istituzioni e gli italiani, senz alcun pudore, importante è deridere sperando di far ridere. Anche lui ovviamente è un dilettante, come comico, e purtroppo anche come politico, il che è tragico, visto i voti che ha preso.
Ma perchè questi guitti hanno preso così tanti voti? I fattori sono tanti e molti osservatori li hanno esaminati attentamente in tutti questi anni, ma non sottovaluterei il fattore “barzelletta”: agli italiani piace dire e ascoltare le barzellette. E se i seri burocrati dell’Europa mostrano disprezzo verso il nostro paese sguaiato e ridanciano, meglio ancora, ridiamo ancora più forte e sguaiatamente. Gli elettori dei 5stelle, una buona parte almeno, sa che non ci si può fidare di Dibba e DiMaio, che sono inadeguati per dirla con un eufemismo, ma va bene lo stesso, meglio fare uno sfregio, l’ennesimo dileggio a quelle istituzioni (italiane e europee), che sono la fonte di tutti i nostri mali, veri o presunti.
Mi sono convinto di questo andando a vedere Loro1, il primo film di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi. C’è una trovata formidabile, semplice semplice perchè aderente alla vicenda storica del Cavaliere: il principale interesse di Berlusconi è dire barzellette, far ridere chi lo circonda, pochi o milioni di persone non conta, conta farli ridere, così li si conquista. Ancora una volta mi confermo nel pensiero che ho espresso più volte di recente su questo mio blog: è Berlusconi il padre di tutto quello che è avvenuto nella politica degli ultimo 25 anni.  E’ lui che nel 1994 ha tracciato la linea di demarcazione tra la prima repubblica, così seria, terminata con la tragedia di Tangentopoli e il dopo (seconda o terza che sia) ovvero la commedia, sempre pronta  trasformarsi in farsa. Così ha vinto: chi non preferisce la commedia alla tragedia?
Quanta serietà c’era nei volti e nei discorsi dei politici democristiani? Oggi tutto questo è sparito, l’ultimo brandello di quel mondo lo possiamo ritrovare nel volto e nello stile di Sergio Mattarella, un gentleman, un antico signore, una persona seria, forse l’ultima rimasta, lasciato lì da solo a trattare con due capicomici volgari, spudorati, cinici e spregiudicati che come si dice a Roma, la buttano tutta in caciara. Che si muovono con la disinvoltura di chi sa che con l’arma dello slogan semplificante e la battuta facile si possono aprire tutte le porte, del resto 30 anni di tv locali berlusconiane qualche effetto lo hanno avuto (ricordate Drive-Inn e l’avvento delle risate registrate che intervenivano con lo stesso ritmo degli applausi di “Di martedì” di Floris con il suo sorriso metallico stampato in volto). Non è un caso che Mattarella fu uno dei 5 ministri democristiani che si opposero fino a dare le dimissioni nel 1990 contro la legge Mammì che regalava il paese (mediatico) a Berlusconi. Siamo tutti figli di quel passaggio tragico.
Vinse lui, Berlusconi, allora, e vince ancora oggi sotto le mentite spoglie dei suoi due figliastri, vince con la sua risata, ormai più simile al ghigno del Joker, una risata che rischia di seppellirci, tutti.

Di Maio di padre Silvio e fu Enrico

Il 20 aprile scorso ho scritto una breve riflessione sul fatto che Berlusconi e Di Maio non si sono  mai visti insieme nello stesso luogo (nè vogliono stare insieme, anche se il secondo ha poi dovuto pietire i voti del primo per provare a far nascere il futuro governo) e suggerivo il fatto che fossero i due volti della stessa entità o comunque che esistesse una forma di paternità di papà Silvio verso il figlio Luigi L’onda che ha portato sulle sponde romane per condizionare la politica italiana il lombardo Berlusconi  è montata grazie al vento del moralismo che spesso agita le acque nostrane, lo stesso vento che soffia dietro le piccole spalle di Di Maio, Casaleggio e compagni. Gli antesignani e precursori del Movimento 5 stelle li troviamo nei programmi di punta della Finivest “Striscia la notizia” e “Le iene” che hanno dissodato il terreno non solo per l’avvento di Berlusconi ma anche di altri come ieri Di Pietro e oggi Di Maio.
E a proposito di compagni, forse anche il moralismo berlusconiano, “padre” della furia catara dei grillini (noi non ci mescoleremo! gridavano insieme al “vaffa”, almeno fino allo scorso 4 marzo) ha un “padre” che è riscontrabile, paradossi della storia, nella famosa “questione morale” di Enrico Berlinguer e della sinistra italiana degli anni ’70 -’80. Politici distanti anni luce, anzi un politico, Berlinguer e un imbonitore (vale per Berlusconi come per Grillo) ma qualcosa li accomuna ed è l’errore del moralismo, questa ideologia manichea che in nome della purezza tende a spaccare il mondo in due, buoni e cattivi. Errore imperdonabile di chi come Berlinguer, appunto un uomo politico, con l’aver cavalcato la questione morale ha finito per spaccare il paese che si candidava a governare, lacerando un tessuto sociale, quello italiano, già fragile per sua storia e natura. Lo aveva colto acutamente Aldo Moro quando definì l’Italia: «Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» proprio Moro, abile tessitore della politica spinto sempre dal vento del dialogo e della riconciliazione, che si trovò a dover dialogare con Berlinguer per cercare di tenere unito un paese che, per passionalità, tendeva alla contrapposizione.
Oggi Moro è morto, la DC pure, e siamo rimasti con la passionalità, l’emotività, e i “figli” ancora molto infantili di quell’ideologia, il moralismo (che uccide sempre i suoi figli), si chiamino essi Silvio, Di Pietro, Di Maio etc etc.. chi ci salverà?

Il ritratto di Giggino Gray

Tempo fa scrissi una breve riflessione sul fatto che Berlusconi e Di Pietro lottandosi strenuamente per anni, non si erano però mai visti insieme nello stesso luogo e suggerivo il fatto che fossero i due volti, tra l’altro fisicamente sempre più simili nel procedere del tempo, della stessa entità. Poi Di Pietro evaporò così come si era materializzato, sull’ondata del moralismo, e rimase solo Berlusconi che ancora si aggira come uno spettro nella scena politica (dominandola) e sul quale vale la felice intuizione di Guido Vitiello: “non temo il Berlusconi in sè, temo il Berlusconi in me”.
Ora si sta creando una nuova inquietante entità, quella tra Berlusconi e Di Maio. Fateci caso ma l’argomento principale di Di Maio, il suo mantra è “mai con Berlusconi”, anzi “con tutti ma non con Berlusconi”, e infatti i due non sono mai stati visti insieme, perchè? Secondo me è un deja vu, è la storia già vista con Di Pietro. Entrambi, Di Pietro e Di Maio, sono figli di Berlusconi e da “buoni” figli desiderano la morte del padre. Anche Di Maio si è materializzato sull’ondata del moralismo, è nato grazie a programmi berlusconiani doc come Striscia la notizie o Le iene, e non può quindi accettare di trovarsi nello stesso luogo con l’ingombrante ombra paterna, essendo il suo ritratto, anzi è Berlusconi ormai (anche fiisicamente) il ritratto di Giggino che si sta decomponendo al suo posto come nel racconto di Oscar Wilde, per questo il buon Giggino lo vuole collocare in soffitta, lontano dalla vista. I doppioni fanno sempre impressione e confusione, come nei romanzi di vampiri quando c’è uno specchio: il vampiro scompare, non si vede più.  Dracula-Di Maio rischia di scomparire se si trova davanti al suo implacabile specchio. E infatti anche dopo che Di Maio ha vinto l’elezioni del 4 marzo, a dominare la scena è sempre lui, Silvio il padre terribile, almeno finchè il parricidio non sarà consumato. O finchè come è apparso anche Di Maio svanirà, sull’ondata della nuova furia moralista che lui stesso ha contribuito ad accrescere e sostenere (ma il copyright è sempre ad Arcore).

Il ritorno del decisionismo

 

Pugno-150x150Decido io. Queste le prime parole di Antonio Conte nel momento in cui è diventato C.T. della nazionale italiana. Parole molto efficaci, che colpiscono e che fanno sperare bene per la nostra malridotta nazionale di calcio. Mi sembrano parole in perfetta corrispondenza con il clima culturale della società italiana contemporanea. Può sembrare paradossale o anche forzato, ma a me la frase di Conte mi è suonata simile a quella pronunciata negli stessi giorni da Richard Dawkins, noto scienziato e ateo, che ha definito immorale il non abortire un figlio malformato. Anche qui si tratta di una decisione e di un “io” che se ne prende tutta la libertà e la (tragica) responsabilità.

Viviamo l’epoca della prima persona singolare, di quella ipertrofia dell’ego di cui il decisionismo è solo una sfaccettatura. C’è un altro personaggio emblematico di questo atteggiamento oggi così diffuso e vincente: il nostro attuale primo ministro Matteo Renzi. Non perde occasione l’ex-sindaco di Firenze per ricordare che c’è “un solo uomo al comando” e di questo potere decisionale si assume tutte le responsabilità, se dovesse fallire la colpa sarà solo sua e delle sue decisioni.

Venti anni prima gli aveva spianato la strada, sulla via del decisionismo, Silvio Berlusconi che però alla fine ha deciso ben poco, ma solo promesso di farlo. Nelle sue intenzioni c’era la rivoluzione liberale di cui necessitava l’Italia che andava tirata fuori dalla palude del consociativismo e della concertazione a oltranza, ma le buone intenzioni si sa dove portano. Forse una delle cause del declino di Berlusconi è stato proprio questo aver promesso e non mantenuto, proprio in termini di decisionismo. Questa brutta parola, gli -ismi non brillano mai particolarmente, ricordo che venne usata, forse per la prima volta, per Bettino Craxi negli anni ’80, quando il leader socialista si presentò con un atteggiamento simile, riassumibile nelle parole: “io decido”, come a dire: al contrario di tutti questi vecchi politici che in Parlamento discutono e basta, io sono uno che fa le cose, agisce. Anche Craxi aveva in mente una rivoluzione liberale, così come Berlusconi e come oggi Renzi. I tre hanno colto un’esigenza reale del nostro paese. Colpisce che oggi sia uno come Renzi, segretario del PD, a fronteggiare questa esigenza, ma se Berlusconi in venti anni non l’ha fatto qualcuno doveva pur pensarci: in politica, come in fisica, i vuoti non esistono, si colmano. Oggi Renzi colma un vuoto e un ritardo di almeno due decenni e lo fa con il piglio del decisionista, di chi si fa vedere “poco politico” e “molto leader”.

Ma la politica, appunto, non è qualcosa di leggermente diverso? Non è far maturare una scelta che goda della condivisione più ampia? Non nel senso di “noi decidiamo”, perchè poi è sempre una parte che deve assumersi le responsabilità ed è giusto che ogni decisione debba infine scontentare qualcuno, ma il dubbio maggiore viene soprattutto sull’aspetto del “far maturare”: siamo sicuri che questo atteggiamento del “decido io”, sia il più adatto per operare scelte ponderate e intelligenti?

L’intelligenza degli avvenimenti, proponeva Aldo Moro, un uomo politico che oggi sembra appartenere ad un’era lontanissima, con la sua lentezza, la ricerca anche spasmodica dell’ultima mediazione possibile, l’esatto opposto del “decido io” ora così di moda. Moro predicava e prediceva la necessità della nascita di una nuova “stagione dei doveri” da affiancare alla “stagione dei diritti” emersa con prepotenza con il ’68 pena il tracollo dell’Italia; oggi viene da pensare che a fianco alla rivoluzione liberale è necessario che si realizzi anche una “rivoluzione sociale”. Proprio nel momento in cui “l’ultimo apache” del comunismo nostrano, Fausto Bertinotti, si dichiara pentito degli errori commessi e appassionato neofita liberale, viene da pensare che un po’ di “socialismo” deve restare, se mai è stato realizzato, in modo sano, nel nostro paese.

Chi legge questo mio blog, così lento negli aggiornamenti, sa che il mio motto, così inattuale, è “fare il bene, farlo bene, farlo insieme”, non potrebbe essere un motto per la politica leggermente migliore di “decido io”?

 

Squadra che vince, si cambia

 

Bilanci-squadre-di-calcio-BarcellonaE così anche la Spagna esce dal mondiale, dopo la seconda sconfitta consecutiva, questa volta ad opera del Cile. Viene in mente il malinconico esito dell’Italia del 2010, quando il C.T. Marcello Lippi realizzò un errore doppiamente sciagurato: tornò indietro sulla saggia decisione che nel 2006 lo aveva spinto a dimettersi all’indomani del mondiale vinto, e tornò indietro anche nella formazione della nazionale richiamando il gruppo reduce della vittoria di quattro anni prima. Così, oggi, la Spagna: stesso C.T., stesso gruppo-squadra. Insomma questi ultimi episodi dei mondiali di calcio ci hanno insegnato una cosa, che tornare indietro è impossibile e quindi privo di senso, per cui non è affatto veritiero il detto, nato proprio in ambito sportivo, che recita “squadra che vince non si cambia” e che spesso viene esportato (con uguale perniciosità dunque) anche in altri ambiti, si pensi ad esempio alla politica. Alla luce di questi episodi (ma la serie potrebbe essere molto più lunga) è chiaro invece il contrario: squadra che vince deve assolutamente essere cambiata altrimenti l’insuccesso è inevitabile. L’appagamento, dovuto al successo, porta a “sedersi”, a sentirsi sazi, a perdere fiducia, grinta e speranza, a perdersi e a perdere.

C’è invece un’altra grande narrazione, che non ha a che fare con lo sport, che insegna la saggezza della vita come “cambiamento continuo”, ed è la lezione che scaturisce dal Vangelo e che Papa Francesco ha ben racchiuso nella sua raccomandazione: “il cristiano deve avviare processi, non occupare spazi”. Questa saggezza può valere nel calcio, ma deve essere la regola nella politica, dove l’occupare spazi può facilmente diventare l’anticamera della cosiddetta “questione morale”.

Il modello di riferimento resta sempre Gesù, che già nel primo capitolo del Vangelo più antico, quello di Marco, risponde così al fenomeno della sua fama che subito si diffonde in lungo e in largo: “Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea…” (Marco 1,28-39). Gesù non si ferma al successo raggiunto, ma va “altrove”, sposta sempre il baricentro (quello suo e quindi quello dei suoi seguaci) di qualche grado in modo da non riposarsi, non cadere nella scontatezza della ripetitività.

cenacoloE la paradossalità di Gesù, il suo essere “segno di contraddizione” vale in tutte e due sensi: per lui non solo “squadra che vince si cambia”, ma è vero anche il contrario, per cui “squadra che perde non si cambia”. Per capirlo si deve passare dall’inizio della sua predicazione alla fine della sua avventura terrena, quando, dopo la resurrezione, non appare ad altri uomini, magari migliori di quella squadra degli undici apostoli che certo non avevano dato una bella prova di sé, ma torna proprio da loro, da quegli amici, codardi e traditori. Il segreto di questo gesto paradossale è in quella parola lì, “amici”. In questo caso allora il “tornare indietro” è possibile e acquista un senso profondo, alto: allargare lo spazio della possibilità, restituire all’uomo ferito un’altra occasione di riscatto, dargli quell’iniezione di fiducia di cui tutti gli uomini hanno bisogno, per ritornare sui propri errori e riprovare a superare quegli scogli che a prima vista appaiono invincibili.
Michael_Jordan_Net_WorthChi vince può solo perdere, così come solo se si perde si può vincere, proprio come diceva di sé uno dei più grandi atleti della storia dello sport di tutti i tempi, Michael Jordan: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.
(questo articolo è apparso su Avvenire il giorno 19 giugno 2014)