Un anno di più

[UNVERIFIED CONTENT] Klungkung, Bali, June 2013 - Kids playing water and having fun during their school holidays at the Tukad Unda Dam located in Klungkung; the smallest regency of Bali, Indonesia. Tukad means river in the Indonesian language and the locals frequent the dam often to bathe and wash their clothes.

Se non hai dato tutto, non hai dato ancor..” (V.Capossela)
Ho visto un posto che mi piace, si chiama mondo” (C.Cremonini)

La mia filosofia di vita, strana espressione, è riconducibile ad un testo che ho scoperto da pochi anni, che è poi una filastrocca di Gilbert Keith Chesterton che suona così:

Ecco, si chiude un altro giorno
nel quale ho avuto
occhi, orecchie, mani
e il gran mondo attorno a me;
e domani ne inizia un altro.
Perché me ne sono concessi due?

Si può dire quindi una filosofia della grandezza e della gratitudine. La logica interna a questa filosofia non è quella del merito, ma del dono. C’è un sovrappiù, un eccesso di dono ricevuto, nella vita, che la rende avventurosa, lieta, drammatica, affascinante, avvincente e commovente. Questa “eccessività” della vita, chiede e richiede una eccessività anche da parte dei viventi; reclama una partecipazione, una corrispondenza, una risposta per quanto sempre inadeguata. Continua a leggere

Misericordia, non sacrifici

Udienza generale di Papa FrancescoSiamo partiti un anno fa alla ricerca delle “parole perdute” del cristianesimo e la prima sfida fu quella intorno alla parola “salvezza”, e ora ci accingiamo a voltare pagina riflettendo sulla parola “misericordia”, sul fatto che il Dio cristiano non giudica ma perdona, non è un Grande Contabile ma un Padre, anzi una Madre. È la Bibbia che ce lo dice, con le sue immagini e quel suo linguaggio, concretissimo (grande virtù della lingua ebraica) e ci ricorda che “misericordia” è un fatto di “viscere”: rahamim indica proprio le viscere materne che accolgono la vita che nasce. La misericordia allora indica lo spazio fatto dentro di sé alla vita dell’altro, uno spazio di profonda comunione, di sentire con l’altro, di patire e gioire con l’altro. Questa, che è davvero una Buona Notizia, un “vangelo” (altra parola perduta, ebbene sì), non viene subito compresa dai miei studenti liceali: il fatto che Dio non stia lì a condannare ma a perdonare suona sempre come una sorpresa per le loro orecchie. Non so dove e come abbiano appreso questa nozione così distorta ma sta di fatto che la loro immagine di Dio è quella di un giudice severo e pronto a punire, che assomiglia tanto ad un contabile, che col bilancino misura e commisura, punisce e premia a seconda dell’oscillazione dei piatti della bilancia. Forse questo è stato l’obiettivo primario di Cristo nel momento in cui si è incarnato ed è venuto a vivere in mezzo a noi: demolire le nostre idee di Dio, trasformarle dall’idea di giudice a quella di Padre, offrirci dunque un’altra immagine, più aderente al vero, mostrandoci il Suo volto più autentico, attraverso la sua avventura di Figlio.
E così anche un professore di religione s’imbatte prima in questo arduo compito demolitivo: la pars destruens precede sempre quella construens. Forse è questa la fatica maggiore: quotidianamente andare a incidere sugli schemi mentali ormai sedimentati, pronti a diventare luoghi comuni e pregiudizi, anche a causa di un clima culturale improntato al più freddo moralismo. Incidere su queste incrostazioni non è semplice, è duro provare a scorticare e gettare questa visione legalistica e “contabile” della religione, per cui Dio è un po’ come Mike Bongiorno che alla fine del quiz ti rilascia il premio per il punteggio conseguito con la tua performance o ti espelle dalla competizione se non hai raggiunto gli standard minimi. È duro ma va fatto, per spiegare che è così che “Dio salva” (come indica il significato del nome Gesù), con la misericordia: abbracciando i suoi figli, mosso sin dalle viscere. Scatta automatico il riferimento a Papa Francesco, ai suoi abbracci, alla sua insistenza sul “toccare la carne di Cristo”, nell’accoglienza ai fratelli, agli ultimi, ai miseri. Mi sembrano colpiti, all’uscita un ragazzo, timidamente, a modo suo, prova anche ad abbracciarmi: “bella prof!”.

(con questa di oggi, 26 novembre, chiude la rubrica settimanale “Parole perdute” apparsa sulla terza pagina di Avvenire dal 4 dicembre 2013)

Giobbe e la scommessa di Dio/2

giobbeDio è pronto a scommettere sull’uomo; forse gli uomini non credono in Dio, ma Dio crede sempre negli uomini. È il messaggio che scaturisce dal prologo del libro di Giobbe, quel testo che la scorsa lezione aveva messo in crisi la fede di Lavinia. «Questo è un libro che serve alla fede come il fuoco al fabbro per temprare la forza del ferro», spiego e vedo che mi seguono visto il silenzio che si sente in classe (il silenzio si “sente” molto più del rumore).
Ne approfitto: «Dio crede in Giobbe, è pronto a scommettere su di lui, sa che riuscirà a tirare fuori delle risorse che nemmeno lui sa di avere, Dio quindi ci crede negli uomini, nella loro bontà (li ha creati Lui!), e voi ci credete?». «No, professore, come si fa? Gli uomini sono cattivi, c’è tanta cattiveria nel mondo…», Letizia parla con amara sicurezza, e in tanti le danno ragione: «Il mondo è uno schifo, come si fa a negarlo?».
Non posso a questo punto non citare la prima pagina della Bibbia, quasi il “manifesto” di tutta l’opera: «Dio crea tutto “E Dio vide che era cosa buona”, insomma com’è questo mondo, questa vita? Questa materia che da Dio proviene e a Dio sembra piacere, com’è?». Sono sorpresi, non se l’aspettano che la Bibbia, la Chiesa, abbia un messaggio positivo nei confronti del mondo, della materia, una novità che non fa quadrare i conti, anche perché il lamento rimane sempre lo sport più praticato di tutti, nella sua facilità. «È facile credere in Dio, in fondo, no?», cerco di provocare l’uditorio: «Dio nessuno lo ha mai visto, ci ricorda il Vangelo secondo Giovanni, e invece questo mondo lo vediamo tutti, ogni giorno, e ci viene anche raccontato molto negativamente, per cui ci crediamo? Gli diamo fiducia, nonostante tutto?».
Chiara, 16 anni capelli biondo platino, è rimasta colpita dalla figura di Giobbe. Ne ho spiegato per sommi capi la vicenda e mi ha seguito con un’attenzione che non è quella delle altre volte, glielo leggo negli occhi. «Mi scusi, professore, ma se ci fosse una persona che si comporta bene per tutta la vita, va in chiesa, è onesta eccetera eccetera… e poi la vita gli riserva una batosta ma di quelle sonore, un po’ come a Giobbe, se questa persona perdesse la fede, lei la condannerebbe?».
La fisso e penso si riferisca a una storia che la riguarda molto da vicino; mi colpisce la sua richiesta di sospensione del giudizio, in fondo di misericordia. Ancora una volta Dio è visto come giudice e quindi rifiutato. Provo a risponderle: «Io? Beh, per fortuna (mia e di tutti) il compito di giudicare non spetta a me o agli uomini, ma a Dio, il quale nemmeno lui “condanna”, ma accoglie tutti quelli che a lui si rivolgono, incalzandoli e incoraggiandoli. Ricorda che Dio fa il tifo per noi, ci ha scommesso sopra, e non solo sulla pelle di Giobbe, ma su quella del Figlio».
(il presente articolo è uscito il 19 novembre 2014 su Avvenire)

Giobbe e la scommessa di Dio

giobbe«Se ancora ci resta qualche cosa di quella originaria semplicità, se poeti e filosofi possono in un certo senso pronunciare una preghiera universale, se viviamo sotto un cielo largo e sereno che paternamente si stenda su tutti i popoli della terra, tutto ciò lo dobbiamo soprattutto (umanamente parlando) a un popolo nomade, irrequieto e segreto, che conferì agli uomini la suprema e serena benedizione di un Dio geloso […] essi ebbero una delle pietre angolari del mondo: il Libro di Giobbe. Il quale vittoriosamente si erge di contro all’Iliade e alle tragedie greche: più ancora di quelle esso fu il punto di incontro e di rottura della poesia e della filosofia nel mattino del mondo».
Mi emoziona sempre leggere queste parole tratte da L’uomo eterno di Chesterton, ma la scorsa settimana l’emozione si è colorata di delusione quando ho chiesto notizie di Giobbe ai miei studenti: mai sentito. Quel libro, quella «pietra angolare del mondo», era stata del tutto scartata da miei alunni, perduta nell’oblio. Martina alza la mano, forse qualcosa sa, ma finisce per peggiorare la situazione: «Giobbe, che ha sposato Rachele?». «No, quello è Giacobbe… ma davvero non avete mai sentito parlare di Giobbe e della sua proverbiale pazienza?». Niente da fare.
Mi viene in mente la mia vecchia zia Gilda, classe 1911, che ripeteva «eh, che pazienza che ci vuole, la pazienza di Giobbe!». Uno sfogo riferito anche a me, uno dei tanti nipoti che questa pia e saggia zitella aveva cresciuto con dedizione tenace e appunto infinita pazienza. Penso a lei e guardo i miei studenti: «Ma che fine hanno fatto le zie, le nonne?». Non c’è tempo però per pensieri malinconici, ho solo un’ora per presentargli uno dei libri più importanti e gravidi di effetti della letteratura mondiale e così mi metto al lavoro e gli racconto la storia dell’uomo di Uz.
Non ho ancora finito di narrare il prologo in cielo, il patto tra Dio e Satana sulla fedeltà di Giobbe che Lavinia interviene con irruenza: «Ma che religione è che ammette una cosa simile? Una scommessa sulla pelle degli uomini, ma è assurdo!». Cerco di spiegargli che quel prologo, scritto e aggiunto dopo al resto del libro, è un escamotage narrativo di grande fascino, capace di catturare l’attenzione e costringere il lettore all’esercizio del paradosso, palestra necessaria per entrare nel testo di Giobbe e di tutta la Bibbia. «E il senso è proprio quello della scommessa», riprendo, «perché il punto è appunto questo: Dio è pronto a scommettere sull’uomo, mentre Satana lo invita a diffidare, e anche gli uomini non se la sentono di scommettere su di loro. E voi che dite? Gli uomini sono buoni? C’è ancora del buono nell’umanità?». La campanella interrompe il dialogo, mentre siamo ancora al prologo, e forse ci salva da altre risposte ancora più inquietanti.

(il presente articolo è uscito il 12 novembre 2014, su Avvenire nella rubrica Parole perdute)

Parabola=parola, cristiano=umano

Pasternak2Gesù, maestro dei professori di religione, alle domande preferiva rispondere con un’altra domanda o con un racconto, la parabola, che poi è un interrogativo in forma narrativa. La domanda che Gesù pone al suo interlocutore è al tempo stesso una chiamata, una vocazione, che fa appello alla responsabilità degli uomini, gli unici esseri viventi che sono “capaci di rispondere” (respons-abili), come cerco di spiegare ai miei studenti, sottolineando l’importanza di questa prerogativa umana, in cui risiede la dignità stessa di ogni persona.
Il narrare parabolico di Gesù è un invito all’esercizio della libertà e dell’intelligenza, un invito a tendere l’orecchio e il cuore, ad allargare la propria immaginazione, demolendo così le idee su Dio che negli anni si sono accumulate e incrostate diventando “ideologie”; proprio per questa libertà vivificante lo stile di Gesù è modello per ogni insegnante che si dedica alla crescita globale dei suoi alunni. E c’è qualche studente che va anche oltre, supera il “maestro”, come ad esempio Federica, 16 anni, che mi pro-voca con l’estratto del dizionario etimologico relativo alla parola italiana “parola”, originata proprio dalla contrazione di “parabola”: tutto nasce lì, dalle narrazioni di Gesù, protagonista narrante del più famoso e commovente dei racconti.
Federica sa che mi occupo delle “parole perdute”, di quel linguaggio religioso e cristiano che oggi sembra non aver più alcuna cittadinanza nel lessico degli adolescenti del terzo millennio, non posso quindi che premiare la sua generosità con una citazione letteraria che evidenzia la forza del parlare parabolico di Gesù: «Per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita di ogni giorno», scrive Boris Pasternak nel suo capolavoro: «Il mondo antico finì in Roma, in quell’orgia di cattivo gusto, in oro e marmi, venne lui, leggero e vestito di luce, precipuamente umano, volutamente provinciale, il Galileo, e dal quel momento i popoli e gli Dei cessarono di esistere e cominciò l’uomo, l’uomo falegname, l’uomo agricoltore, l’uomo pastore tra un gregge di pecore al tramonto, l’uomo il cui nome non suonava solenne e feroce, l’uomo generosamente offerto a tutte le ninne-nanne materne del mondo».
Anche le parabole stanno scomparendo, come evaporando dal paesaggio quotidiano di questi giovani: essi ne rammentano alcuni titoli, i più celebri, il buon samaritano, i talenti, il buon pastore, ma spesso il ricordo è confuso, pure nel caso della parabola del figliol prodigo, che parla proprio di questo, di un giovane che taglia i ponti con il mondo del padre, un mondo perduto, ma che poi, nel momento più buio, ne avverte una fame pungente e una struggente nostalgia, quasi fosse una ninna-nanna.

(il presente articolo è apparso il 22 ottobre nella rubrica Parole perdute di Avvenire)