La porta santa, le mani, il Re

papa-porta-santaNon è un caso (anche perchè non esiste il caso) che il Giubileo si chiuda oggi, 20 novembre 2016 nel giorno che ricorda la solennità di Cristo Re. Oggi il Papa chiuderà la Porta Santa. Quasi un anno fa, in apertura del Giubileo, tutto il mondo si è emozionato a guardare Papa Francesco che con le sole mani, senza martelletto, poggiandone con forza il palmo sulle due ante, ha, lentamente ma decisamente, spalancato la Porta Santa del Giubileo della Misericordia. Continua a leggere

Fratelli coltelli?

Caino e Abele

Caino e Abele

Ho terminato di leggere C’è posto per tutti, il bel saggio di don Giovanni Cesare Pagazzi, pubblicato qualche anno fa dalla Vita&Pensiero, dedicato al tema della fraternità nella Bibbia e mi è venuto in mente questa tremenda riflessione del poeta Umberto Saba, tratto dal volume Scorciatoie e raccontini (e ringrazio Valerio Magrelli per avermela fatta conoscere):

Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe.
Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… “Combatteremo – fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto – fratelli contro fratelli”. (Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che – diventato chiaro a se stesso – finalmente si sfoghi). Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione.
Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.

Ho pensato subito che forse la vera risposta al perchè in Italia non ci sono state rivoluzioni è racchiusa nella battuta di Flaiano: “In Italia le rivoluzioni sono impossibili: ci conosciamo tutti”.

Poi mi sono detto che solo un ebreo poteva fare una riflessione come questa di Saba, così ricca anche di echi bibliche, e qui si ritorna al saggio di Pagazzi e alle varie figure di fratelli, da Caino e Abele a Giacobbe ed Esaù fino a Giuseppe tradito e venduto dai fratelli e, soprattutto fino a Gesù, “nostro primogenito”. La lettura di questo breve quanto ricco saggio mi ha molto colpito, in particolare ho riflettuto sul fatto che essere figli forse è più semplice che essere fratelli. Il complesso di Edipo è meno complicato di quello di Caino. E i figli più giovani non stanno meglio dei primogeniti, visto il comportamento del famoso figlio più giovane della parabola tradizionalmente denominata del “figliol prodigo”: lui fuggi di casa, ma ce l’ha col padre o con il fratello maggiore? I due non sono bravi figli ma perchè innanzitutto non sono bravi fratelli tra di loro. I fratelli hanno paura di non trovare posto, di essere “s-postati” dal cuore del padre a causa della concorrenza degli altri. Si dubita della bontà dell’origine e dell’estensione di questa bontà: ci sarà posto per tutti?

2 Papi fuoriE quindi mi è venuto in mente la seconda parte della preghiera del Padre Nostro, quella che dice: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non indurci in tentazione ma liberaci dal male”. Rispetto alla prima parte, più “verticale”, questa mi sembra dedicata alla dimensione orizzontale della fraternità. La prima parte inizia in cielo e finisce con la parola “terra”, questa seconda inizia con il pane, “frutto della terra” e parla di condivisione e di perdono, di orizzontalità, e finisce sotto terra, con la tentazione che viene dal Maligno per distruggerci e proprio di questa eventualità abbiamo paura (paura, da pavere, pavimento, essere atterriti) e chiediamo di essere salvati.

Ho ripensato agli attuali due sommi pontefici della chiesa cattolica, Benedetto e Francesco.

Il primo, come il suo predecessore, mi sembra un Papa più tendente verso la prima parte del Padre Nostro, quella verticale del rapporto Padre-figlio, un Papa che annuncia il regno dei cieli che discende e chiede agli uomini di prepararsi, spalancando le porte del mondo al Dio che viene in Cristo. Il secondo, Papa Francesco, mi appare invece un Papa con una propensione maggiore per la seconda parte del Padre Nostro, quella della fraternità orizzontale, fatta di condivisione e di misericordia, con un occhio teso e acuto verso le inesauribili tentazioni del Maligno. In realtà la misericordia, proprio come il pane, discendono tutti dall’alto, per cui come nei due bracci che compongono la croce, la dimensione verticale e quella orizzontale sono indissolubilmente intrecciate e una alimenta e verifica l’altra. Il pane è un dono, e il per-dono è un dono moltiplicato: noi rimettiamo i debiti ai fratelli perchè il padre ha rimesso i nostri, altrimenti non avremo la forza per farlo.

Per questo l’ultima parola di Cristo sulla croce è una parola di perdono, rivolta al Padre, nei confronti dei suoi fratelli più piccoli, che “non sanno quello che fanno”: la resurrezione del Figlio obbediente è la risposta di un Padre anche lui, obbediente, che ha ascoltato la preghiera del primogenito per i suoi fratelli e questa risposta di misericordia è discesa dal cielo fino a sopra e sotto la terra (discese agli Inferi), dappertutto, perchè c’è posto davvero per tutti.

Generare è narrare

1 jos-van-clevePaul Ricoeur osservava come il male non sia spiegabile, sia anzi l’assenza di spiegazione, e aggiungeva: il male non si può spiegare ma si può raccontare. La prospettiva può essere rovesciata e cambiata di segno: è il bene che non è spiegabile, ma è occasione e oggetto di narrazione. Da questa prospettiva parte il padre gesuita Jean-Pierre Sonnet, poeta e docente di esegesi dell’Antico Testamento presso l’Università Gregoriana, che ha fatto sua la suggestione del teologo protestante Karl Barth per cui “Chi è e che cos’è Gesù Cristo può essere solo raccontato e non colto e definito come sistema”. Con l’indagine che da anni conduce sui testi biblici, padre Sonnet vuole controbilanciare lo strano oblio in cui è caduta la teologia: “Il paradosso è che la teologia stessa ha dato prova di amnesia nei confronti della potenza letteraria – e soprattutto narrativa – della Bibbia.”

Per dar corpo alla sua riflessione senza lasciarla scivolare in una teoria astratta, l’autore incrocia il testo biblico con alcuni libri o film all’interno delle quali si muove con acume e sicurezza, come ad esempio i romanzi del premio Pulitzer Marilynne Robinson e L’albero della vita di Terrence Malick, opere a cui la lettura di Sonnet restituisce nuova luce e profondità.

Il punto di partenza è che ogni essere umano è Homo Narrans; è questo il titolo del primo capitolo che affronta il fondamento antropologico del volume, il fatto che “noi viviamo delle storie che raccontiamo, siamo il nostro stesso racconto, ed è eminentemente così nel caso della Bibbia, che è un santuario del pensiero narrativo”. Storia di storie, il cuore dell’indagine di Sonnet ruota intorno alla domanda del bambino al padre da cui scaturisce il racconto della Pasqua, dell’Esodo: “Quando tuo figlio ti chiederà ‘Che significa ciò?’, tu gli risponderai: ‘Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto…’”; una domanda generativa, anche se procedente dal basso, al contrario: “Paradossalmente è a partire dalla domanda del figlio che sorge la parola paterna. […] Il figlio chiede al padre di dire la cosa più vera, più essenziale della sua stessa esperienza, e lo mette così in condizione di essere padre”.

Racconto e paternità (e anche maternità: il quarto capitolo sul “racconto del grembo” segna il punto di maggiore intensità del saggio), tra le due dimensioni antropologiche, esiste un’alleanza che la Bibbia esprime in molti modi e occasioni, di cui l’Esodo è solo la più vistosa: “Dal passaggio del mare al passaggio della morte, il racconto biblico si rivela essere il primo alleato della paternità umana. Permette di manifestare al bambino che la vita (a caro prezzo) trasmessa è anch’essa presa in un mistero di vita più grande, che passa per la morte”. L’uomo, “tessuto” da Dio nel seno materno secondo il salmo 139, è anche protagonista del testo cioè del “tessuto” delle storie: “Se siamo stati ‘tessuti’ da Dio nel seno materno, siamo anche ‘tessuti’ dalle storie – e soprattutto dalle storie su Dio – che ci raccontano le nostre madri. Le donne tessono la Bibbia quanto Penelope nell’Odissea”. Riscoprire il tessuto di cui siamo fatti è necessario, conclude Sonnet, soprattutto in un tempo come quello attuale, in cui questo tessuto sembra spezzato e “la successione delle generazioni non è più vissuta intorno al passaggio di un testimone, di un sapere, di un saper fare o di una saggezza. Ogni generazione sembra invece desiderosa di – o obbligata a – partire da se stessa. Il grande perdente in questa faccenda è la figura del padre, spossessato del testimone (da passare)”. Riscoprire la potenza generativa dei racconti è allora un passaggio obbligato per ridare futuro e speranza ad un mondo, quello occidentale contemporaneo, che sembra proprio in crisi di generatività.

Generare è narrare, di Jean-Pierre Sonnet
Vita e Pensiero, Milano, 2014, pp.165, euro 16,00

Un vescovo (inglese) vestito da clown

pope_clown_noseBorges diceva di lui: “Avrebbe potuto essere Kafka e Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità o finse di averla trovata. Dalla fede anglicana passò a quella cattolica […] In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo ad un mero propagandista cattolico. Innegabilmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta. La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessun scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton”.

La fama di apologeta cattolico ha nuociuto alla fortuna letteraria del geniale inventore di Padre Brown anche in Italia e qui da noi con un duplice esito: snobbato dalla critica Chesterton spesso è stato preso a campione di una fede muscolare, di una versione dell’apologetica in cui la fede è usata più come un randello che come un punto di partenza per il dialogo. Continua a leggere

Gesù cuoco

emmausGesù sapeva cucinare. Non solo s’intendeva di cucina, ma cucinava direttamente lui. E’ da questa intuizione che don Giovanni Cesare Pagazzi si muove per realizzare un saggio breve quanto “sapido”, è l’aggettivo giusto, per questa inedita ricostruzione del profilo della figura di Gesù, “cuoco per l’umanità affamata”, come recita il sottotitolo. L’intuizione è poggiata su fondamenta salde, i testi dei quattro Vangeli che mostrano a più riprese Gesù esperto della tavola e della convivialità. Un dato che ad esempio si intuisce dalla polemiche che nascono da chi lo paragona all’austero suo predecessore, Giovanni Battista, probabilmente un “vegetariano” secondo Pagazzi e come tale portato a snobbare le grassi e volgari abitudini alimentari del suo tempo. Gesù invece mangia tutto, benedice e purifica tutti i cibi, in ossequio al “manifesto” del primo capitolo della Genesi: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Mangia tutto e mangia troppo, visto che è lui stesso che riporta i termini della polemica, “mangione e beone”, accuse che suonano alle sue orecchie (e dell’autore del saggio) come complimenti, visto che la meta ultima della vita è il grande banchetto celeste, la festa nuziale a cui tutti siamo invitati grazie alle “partecipazioni” trascritte dagli angeli di cui parla dell’Apocalisse (“Allora l’angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!» Ap 19,9).

Gesù ovvero la convivialità, ma non finisce qui: Gesù conosce bene l’arte culinaria, come dimostrano alcuni testi, in particolare la parabola del lievito narrata da Matteo: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Questo versetto, in cui si avverte forte l’eco di quella “scuola di Nazareth” di cui parlava cinquant’anni fa il beato Papa Paolo VI (e che il lodigiano Pagazzi cita ampiamente), è illuminante e, secondo il teologo lombardo, stupisce «per la resa puntuale dei gesti (“prendere e mescolare”), la menzione degli ingredienti (“lievito e farina”), l’allusione al tempo necessario alla lievitazione (“finchè non sia tutta lievitata”), ma soprattutto la precisione delle dosi, senza cui è impossibile cucinare: “tre misure di farina” (come ogni cuoco che si rispetti, è tenuta segreta la quantità di un ingrediente, il lievito)».

Ma c’è di più, Gesù non è solo un “intenditore” della cucina, ma è anche cuoco, come dimostra il capitolo 21 del vangelo di Giovanni, che ci mostra Gesù, risorto, che cucina per i suoi amici reduci da una dura notte di pesca: «appena scesi a terra, videro un fuoco di brace, con del pesce sopra e del pane». Questo vuol dire innanzitutto che il cucinare è un gesto cristiano, di chi crede nel Risorto, un gesto redento. Tutto dell’umanità viene riscattato dall’incarnazione di Cristo, non stupisce allora che un raffinato teologo come Pagazzi si concentri su questo insolito aspetto anche per la teologia, almeno fino ad oggi.

Gesù, vero Dio e vero uomo, è anche vero homo culinarius e sceglie di assumere questa che forse è l’arte più antica dell’umanità: non sbranare ma cucinare il cibo, con tutto quello che ciò significa. Il saggio diventa allora un mini-trattato di fenomenologia della cucina che rivela il taglio e la finalità dell’autore, un teologo formatosi alla scuola di Salmann e Sequeri, ma che deve molto anche alle letture di Maurice Merlau-Ponty (ai suoi studi sul corpo e alla sua fenomenologia della percezione) e del gesuita Marcel Jousse con la sua insistenza sulla dimensione del gesto e della memoria: restituire al lettore Gesù Cristo non come idea ma come corpo, nella concretezza dei suoi gesti più comuni e quotidiani, compreso quello del cucinare.

La cucina del Risorto – di Giovanni Cesare Pagazzi – EMI 2014, pp.62, euro 5,00

(il presente articolo, in versiore ridotta, è uscito su Il Foglio il 31 marzo 2015)