Difficile riuscire a seguire il ritmo dell’uragano Bergoglio, le onde sismiche si susseguono quotidiane, in alcuni casi anche più volte al giorno e l’assestamento richiede tempo, l’assimilazione dei “pugni” che il Santo Padre piazza a destra e manca, soprattutto allo stomaco di noi europei, suoi ascoltatori incuriositi e irritati, vecchi e sofisticati, è un processo lento e faticoso.
Uomo impegnativo questo 266^ sommo pontefice della Chiesa cattolica e non solo perché ogni uomo resta in fondo un mistero: Jorge Mario Bergoglio è veramente venuto “dalla fine del mondo” e ancora stiamo cercando di capire le sue categorie, tentati come siamo di catalogarlo, chiudendolo in qualche celletta delle nostre abitudini mentali.
A volte è lui stesso che ci viene in aiuto con qualche suggerimento che contribuisce a ricostruire il suo ritratto; ad esempio nel vorticoso viaggio nelle Filippine ha confessato che un’esperienza del suo passato che lo aiuta nell’essere Papa è stata quella d’essere stato parroco, ed è proprio il pensiero che molti provano di fronte alle sue esternazioni: “ecco il parroco di periferia che parla chiaramente e bruscamente”, una sensazione strana, che spiazza alcuni ed entusiasma molti, moltissimi.
Un altro “flash” illuminante proviene dal discorso del 22 dicembre, quando, in occasione del saluto natalizio, come vuole alla tradizione, alla Curia Romana, il Papa ha citato san Tommaso Moro e la sua preghiera per il buon umore: “Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo!”.
Nella medesima occasione il Papa emerito qualche anno fa aveva approfittato per offrire una storica lezione sul Concilio Vaticano II, facendo ordine della dicotomia lacerante tra le varie ermeneutiche della più grande assise della storia della chiesa cattolica. Ma se Benedetto, grande predicatore della gioia e del buon umore, è uomo che fa ordine, Francesco appare invece come uomo che vive la medesima fede nella gioia e nel buon umore come fonte di disordine, di scompiglio, di crisi, che in greco vuol dire “giudizio” e poi, soprattutto, egli è un uomo che non ha partecipato al Concilio e quindi può permettersi di attuarlo, incarnandolo con ogni gesto che mette in atto e ogni parola che pronuncia, anche quelle sul volto non corrucciato del cristiano che deve prendere esempio dal grande santo inglese. La citazione può sembrare sorprendente: Moro è il santo martire patrono dei politici, l’umanista inglese campione della coscienza, un tema quanto mai benedettino (nel senso di Ratzinger), eppure questa citazione al tempo stesso che era già stata annunciata da tanti gesti e parole del Papa in precedenza. Due aspetti, tra i tanti, che spiegano questo legame tra Moro e Bergoglio: primo il buon umore, appunto; Moro prega affinchè non si crucci «eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama io». E’ un tema squisitamente bergogliano: proprio qualche giorno prima il Papa aveva invitato i cristiani ad abbandonare la tristezza, in cui gli uomini vogliono restare perchè lì il proprio ego si sente protagonista, e lasciarsi consolare da Dio; sull’urgenza di questo de-centramento l’umanista inglese e il pontefice argentino convergono.
Secondo: Tommaso nella sua vita di primo consigliere del re era attento a non vivere da cortigiano, non frequentando quindi, se non il minimo necessario, il palazzo reale. Così fa anche Francesco, che ha scelto di vivere fuori dal palazzo, a S.Marta. Anche l’appartamento papale rischierebbe infatti di essere quella celletta rassicurante dove tutti vorremmo collocarlo. A queste tentazioni entrambi, Moro e Bergoglio, hanno risposto con il prolungato e scandaloso martirio che va sotto il nome di libertà. Quella stessa libertà, scioltezza e umorismo che portano il Papa argentino a parlare in modo semplice, di pugni e conigli, un modo così semplice che chi lo ascolta e per caso non è dotato della medesima semplicità entra in crisi. La parola bergogliana, in piccolo, produce lo stesso effetto che Paolo di Tarso attribuiva alla parola di Dio, la quale, scrive nella lettera agli Ebrei, “è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”. Ma non tutti vogliono essere scrutati e allora la vivacità del buon umore del Papa viene spenta nella lettura riduttiva alla dimensione sociologica o politologica, e la forza del suo terremoto che mette disordine viene ridotta a folklore sudamericano. Anche Enrico VIII ad un certo punto non ne ha potuto più dello humour scandaloso del suo grande amico e consigliere.