Secondo padre Michael P.Gallagher, decano emerito di teologia fondamentale all’Università Gregoriana, la scrittrice cattolica americana Flannery O’Connor è una “esploratrice religiosa”. Nel suo ultimo saggio pubblicato qualche settimana fa in Inghilterra, colloca la O’Connor nella “top ten della fede”: Faith Maps: ten religious explorers from Newman to Joseph Ratzinger. La scrittrice è in ottima compagnia: oltre a Newman e a Ratzinger, tra i dieci esploratori ci sono nomi altisonanti come quelli di Maurice Blondel e di Von Balthasar, di Bernard Lonergan e del filosofo canadese Charles Taylor (l’unico vivente insieme all’italiano Pierangelo Sequeri). Alla fine di giugno è uscito in Italia per i tipi della casa editrice cattolica Ancora, il primo libro interamente dedicato alla O’Connor, un agile ma acuto saggio critico scritto da Elena Buia Rutt (giornalista laureata in filosofia con una tesi sulla scrittrice americana): Flannery O’Connor, il mistero e la scrittura, con prefazione del padre gesuita Antonio Spadaro, scrittore de La Civiltà Cattolica e autore di diversi lunghi articoli sulla spiritualità della narrativa o’connoriana. Infine: nel prossimo mese di agosto al Meeting di Comunione e Liberazione si terrà una mostra-evento per presentare questa singolare figura di narratrice che si dichiarava scrittrice “non sebbene, ma proprio in quanto cattolica”. Senza dubbio un certo “catholic pride” viene riscaldato dalle pagine, specie quelle saggistiche, della O’Connor ed è in questo orgoglio che si può intravedere una prima ragione della riscoperta attenzione nei confronti di un’autrice scomparsa nel 1964 da parte dei teologi, dei critici e del popolo cattolico. La O’Connor è una donna del sud degli Stati Uniti con i modi spicci e anti-intellettualistici di quei luoghi, dotata di cervello fine, lingua tagliente e una forte dose di ironia (e autoironia). Nata a Savannah nel 1925 e morta sempre in Georgia, a soli 39 anni dopo una vita segnata dalla malattia, il lupus heritematosus ereditato dal padre, scriverà nel 1956: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa perde una benedizione del Signore”. Come sottolinea la Buia nel suo saggio, questo della malattia e del Male (e del suo mistero), è uno dei grandi temi dell’opera della O’Connor: due romanzi, ventisette racconti e, soprattutto, alcuni saggi di critica letteraria che, insieme ad una cospicua produzione epistolare, sono conosciuti ancora solo in parte dal pubblico italiano. Il titolo dei saggi letterari, Nei territori del diavolo, è fortemente rivelativo perché questo è il campo d’indagine di Flannery, la “religious explorer”: il male, il peccato, l’ombra dell’esistenza, l’unico luogo dove, proprio perché in ombra, la luce può splendere. La O’Connor infatti non è una sociologa o psicologa del male, affatto; il suo approccio è teologico, spirituale e, soprattutto, cattolico, con tutto il gusto cattolico per il paradosso (saltano in mente i nomi di Chesterton, Peguy, Greene): per la scrittrice di Savannah il territorio proprio della narrativa è il dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione, della grazia e del diavolo, un dramma in cui “il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace”. Da ciò deriva che “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa” e che diavolo diventa in qualche modo “una necessità drammatica dello scrittore”; del resto “il mistero dell’esistenza è in parte peccato” e quindi la scrittrice non può fare a meno di riconoscere che, in genere, i suoi racconti parlano “dell’azione che la grazia esercita su un personaggio poco disposto ad assecondarla” anzi per meglio dire “dell’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo”. L’azione della grazia nei racconti della O’Connor è sempre un’irruzione, violenta, improvvisa e imprevista che fa saltare gli schemi di un mondo (quello rurale e fuori dal tempo dei villaggi del sud degli Stati Uniti) il cui principe è ben saldo al comando. C’è molta puzza di zolfo in queste pagine, il male è raccontato in tutte le sue sfumature, follie e (de)gradazioni; non è un caso la O’Connor, che in vita non ebbe figli, può essere considerata “madre” di diversi artisti dell’ultimo mezzo secolo, da John Huston (il grande regista realizzò un film dal suo romanzo La saggezza nel sangue) al punk-rocker Nick Cave, da Quentin Tarantino al Bruce Springsteen di Nebraska, album molto dark scritto dopo la lettura dei suoi racconti. E non è un caso che la scabrosità di questi racconti, con quell’uso ricorrente dei toni violenti, ironici e grotteschi, ha sempre sollevato un alone di disagio e riprovazione anche in ambiente cristiano da parte di una critica più “tradizionale”.
Il punto è che la O’Connor, per dirla con termini più contemporanei, è, da vera cattolica, recisamente anti-buonista e anti-moralista (e queste probabilmente sono altre due ragioni del rinnovato favore che oggi in ambito cattolico investe la sua opera) e quindi il lettore beneducato e perbenista sarà sempre preso in contropiede dalle sue storie. Nel 1956 una recensione definì il messaggio della sua opera “immoralistico in senso gidiano”: cinquant’anni prima il futuro premio Nobel aveva pubblicato un romanzo intitolato L’immoralista in cui il protagonista, un marito non innamorato della moglie, compiva un viaggio in Africa che corrispondeva ad un viaggio dentro se stesso per liberarsi dalla rigidità puritana e convenzionale, lasciandosi andare alla sensualità e, attraverso questa, alla affermazione del vero sé. Niente di più simile e vicino e quindi di radicalmente opposto rispetto alla visione della O’Connor (la quale verso Gide provava letteralmente “nausea”) spiegata precisamente in una lettera tesa proprio a rispondere a quella critica: “sono convinta che il senso morale dello scrittore debba coincidere con il suo senso drammatico e questo significa che il giudizio morale deve essere implicito nell’atto della visione. Per dirla in soldoni: io scrivo dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Niente mi ripugna di più dell’idea di allestire un piccolo universo scelto da me, per diffondere un piccolo messaggio immoralistico. Scrivo sulla base di una solida fede in tutti i dogmi cristiani. Trovo che questo non limiti in alcun modo la mia libertà di scrittrice e che amplifichi anziché ridurre la mia visione […] Per lo scrittore di narrativa, non credere in niente equivale a non vedere niente”.
Per la O’Connor la cosa più importante è la capacità di visione, osservazione e contemplazione (anche con un “little grain of stupidity”) della realtà, non per giungere ad un atto (la scrittura) come “mera copia della realtà”, osserva la Buia, ma “come interpretazione di questa alla luce della fede”. Il percorso partito dal primo dei dieci “esploratori”, il cardinale Newman (che Graham Greene vorrebbe come patrono dei romanzieri cattolici), passando per la O’Connor e la sua “visione”, si chiude con Ratzinger-Benedetto XVI che nella Deus Caritas est afferma che il programma del cristiano è “avere un cuore che vede”. Visione della realtà e, quindi, fiducia nella realtà; perché nella realtà si cela il mistero, nel visibile c’è la via d’accesso all’invisibile, nelle piccole cose è racchiusa la gloria divina. La scrittura della O’Connor, che si dichiarava una “tomista zoticona”, è una scrittura “sacramentale”, per cui la realtà non solo esiste, ed è donata all’uomo, ma resiste anche all’aggressione del nichilismo, del relativismo e del tedium vitae. C’è una grande vitalità nelle scarne e scabrose pagine della O’Connor, una gioia che nasce proprio dalla coscienza del male e del limite. Altro che “affermazione del vero sé” come diceva Gide, per la cattolica Flannery (che una volta scandalizzò alcune donne protestanti dicendo che se l’eucaristia era solo un “simbolo”, per lei poteva anche “andare al diavolo”) la salvezza dell’uomo è sempre “fuori”, e precisamente chi salva l’uomo è solo il Dio incarnato in Gesù di Nazareth. Come ben sottolinea la Buia, il mistero che avvolge l’esistenza di ogni uomo è “redentivo” e passa attraverso “il riconoscimento intuitivo di un Dio che trascende e salva l’uomo, sanando la sua incompiutezza e fragilità, sinonimo di umanità”.
Esploratrice del mistero del male che, come ricorda Timothy Radcliffe (padre generale emerito dell’ordine domenicano) è “un mistero grande, ma il bene è un mistero ancora più grande”, la O’Connor è talmente ancorata alla fede nell’Incarnazione che forse mai nessuno come lei, nemmeno Peguy o Greene o Tolkien, ha mai scritto così “cattolico” nel ‘900. Cattolico, cioè fuori dagli schemi; scrive nella prefazione al saggio della Buia padre Antonio Spadaro che “la narrativa di Flannery è in grado di ‘resettare’ una vita umana, farle ricostruire le gerarchie dei valori, ricombinare i pezzi, rivedere i giudizi e i punti di vista. Per questo la lettura di Flannery non è facoltativa, ma obbligatoria”. I cattolici hanno preso sul serio l’obbligo di lettura della O’Connor, forse perché cercano sempre libri come il Vangelo, “non informativi ma performativi” come dice il Papa, capaci cioè di colpire come una spada le false certezze e di farci “cambiare mente” (metanoia è la prima parola di Cristo) e di rimetterci in cammino con occhi nuovi perché “Non smetteremo di esplorare./ E alla fine di tutto il nostro andare/ ritorneremo al punto di partenza/ per conoscerlo per la prima volta.», come cantava Eliot, l’undicesimo esploratore religioso del ‘900 (sfuggito alla top ten di padre Gallagher).
(il presente articolo è apparso su Il Foglio il 26 agosto 2010)