Gesù sapeva cucinare. Non solo s’intendeva di cucina, ma cucinava direttamente lui. E’ da questa intuizione che don Giovanni Cesare Pagazzi si muove per realizzare un saggio breve quanto “sapido”, è l’aggettivo giusto, per questa inedita ricostruzione del profilo della figura di Gesù, “cuoco per l’umanità affamata”, come recita il sottotitolo. L’intuizione è poggiata su fondamenta salde, i testi dei quattro Vangeli che mostrano a più riprese Gesù esperto della tavola e della convivialità. Un dato che ad esempio si intuisce dalla polemiche che nascono da chi lo paragona all’austero suo predecessore, Giovanni Battista, probabilmente un “vegetariano” secondo Pagazzi e come tale portato a snobbare le grassi e volgari abitudini alimentari del suo tempo. Gesù invece mangia tutto, benedice e purifica tutti i cibi, in ossequio al “manifesto” del primo capitolo della Genesi: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Mangia tutto e mangia troppo, visto che è lui stesso che riporta i termini della polemica, “mangione e beone”, accuse che suonano alle sue orecchie (e dell’autore del saggio) come complimenti, visto che la meta ultima della vita è il grande banchetto celeste, la festa nuziale a cui tutti siamo invitati grazie alle “partecipazioni” trascritte dagli angeli di cui parla dell’Apocalisse (“Allora l’angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!» Ap 19,9).
Gesù ovvero la convivialità, ma non finisce qui: Gesù conosce bene l’arte culinaria, come dimostrano alcuni testi, in particolare la parabola del lievito narrata da Matteo: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Questo versetto, in cui si avverte forte l’eco di quella “scuola di Nazareth” di cui parlava cinquant’anni fa il beato Papa Paolo VI (e che il lodigiano Pagazzi cita ampiamente), è illuminante e, secondo il teologo lombardo, stupisce «per la resa puntuale dei gesti (“prendere e mescolare”), la menzione degli ingredienti (“lievito e farina”), l’allusione al tempo necessario alla lievitazione (“finchè non sia tutta lievitata”), ma soprattutto la precisione delle dosi, senza cui è impossibile cucinare: “tre misure di farina” (come ogni cuoco che si rispetti, è tenuta segreta la quantità di un ingrediente, il lievito)».
Ma c’è di più, Gesù non è solo un “intenditore” della cucina, ma è anche cuoco, come dimostra il capitolo 21 del vangelo di Giovanni, che ci mostra Gesù, risorto, che cucina per i suoi amici reduci da una dura notte di pesca: «appena scesi a terra, videro un fuoco di brace, con del pesce sopra e del pane». Questo vuol dire innanzitutto che il cucinare è un gesto cristiano, di chi crede nel Risorto, un gesto redento. Tutto dell’umanità viene riscattato dall’incarnazione di Cristo, non stupisce allora che un raffinato teologo come Pagazzi si concentri su questo insolito aspetto anche per la teologia, almeno fino ad oggi.
Gesù, vero Dio e vero uomo, è anche vero homo culinarius e sceglie di assumere questa che forse è l’arte più antica dell’umanità: non sbranare ma cucinare il cibo, con tutto quello che ciò significa. Il saggio diventa allora un mini-trattato di fenomenologia della cucina che rivela il taglio e la finalità dell’autore, un teologo formatosi alla scuola di Salmann e Sequeri, ma che deve molto anche alle letture di Maurice Merlau-Ponty (ai suoi studi sul corpo e alla sua fenomenologia della percezione) e del gesuita Marcel Jousse con la sua insistenza sulla dimensione del gesto e della memoria: restituire al lettore Gesù Cristo non come idea ma come corpo, nella concretezza dei suoi gesti più comuni e quotidiani, compreso quello del cucinare.
La cucina del Risorto – di Giovanni Cesare Pagazzi – EMI 2014, pp.62, euro 5,00
(il presente articolo, in versiore ridotta, è uscito su Il Foglio il 31 marzo 2015)