Borges diceva di lui: “Avrebbe potuto essere Kafka e Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità o finse di averla trovata. Dalla fede anglicana passò a quella cattolica […] In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo ad un mero propagandista cattolico. Innegabilmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta. La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessun scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton”.
La fama di apologeta cattolico ha nuociuto alla fortuna letteraria del geniale inventore di Padre Brown anche in Italia e qui da noi con un duplice esito: snobbato dalla critica Chesterton spesso è stato preso a campione di una fede muscolare, di una versione dell’apologetica in cui la fede è usata più come un randello che come un punto di partenza per il dialogo. E’ vero, in occasione della morte, il 14 giugno 1936, un Papa energico e schietto come Pio XI lo definì “Defensor fidei” (ironia della sorte: l’ultima volta che un appellativo del genere era stato usato per un uomo inglese era stato per Enrico VIII, ovviamente prima dello scisma anglicano), ma a questa definizione va affiancata quella che più sommessamente gli attribuì Emilio Cecchi, il critico letterario che più di ogni altri a suo tempo diffuse il verbo chestertoniano nel nostro paese: “un uomo che visto di fronte pare un vescovo e alle spalle come un clown”. Un altro estimatore è stato Giovanni Papini che, come ricordava Carlo Bo, “aveva giustamente osservato che Chesterton aveva voluto riportare l’allegria nel cristianesimo e c’era riuscito. Egli è un profeta familiare, uno che sa parlare di cose gravi e importanti con le parole di tutti i giorni e che ha la sola preoccupazione quella di non tradire la verità”. Verità e allegria, vietato separarle: Caritas in veritatem, direbbe Benedetto XVI, oppure “Abbiate il coraggio di essere felici!” come esorta Francesco, facendo eco al suo concittadino Borges. Questa felicità Chesterton stessa la coglie nel Vangelo: è la gioia che prima di ogni altra cosa salva l’uomo come ha salvato il giovane Gilbert da una forma profonda di depressione che con gratitudine non può non affermare nel saggio L’uomo eterno: “C‘è un’altra qualità rivelantesi in tutti i suoi insegnamenti che mi sembra trascurata per lo più dalla letteratura moderna su tali insegnamenti: e cioè la persistente idea che Cristo non è venuto in realtà ad insegnare nulla. Se c’è un episodio che personalmente mi colpisce come grandemente e gloriosamente umano, è l’episodio del vino per la festa nuziale”.
La lezione di Chesterton è ancora attuale proprio nella sua inattualità, contro la saccenteria e l’orgoglio intellettuale, che egli considera “la grande tentazione del cattolico nel mondo moderno”, lo scrittore inglese, che per amore della verità ingaggiò vibranti duelli pubblici con gli artisti intellettuali del suo tempo, rimanendone sempre amico vero e leale (si pensi al rapporto con Bernard Shaw o H.G.Wells), portò il lieto vento del Vangelo compiendo scorrerie in tutti i campi che si trovò ad attraversare, dal giornalismo alla narrativa, dal teatro alla pittura, dalla politica alla poesia. Dispensatore di felicità secondo Borges, Chesterton fu anche fiero “avversario” di Nietzsche ma i due sul punto della centralità della felicità concordavano: peccato che i cristiani siano poco credibili, pensava il filosofo tedesco, soprattutto perché privi della faccia di persone redente, sono troppo tristi.
(il presente articolo è apparso su Avvenire l’8 maggio 2015)