Diario olandese

Appena esci dalla stazione centrale di Amsterdam non puoi evitare di vedere il grande Hotel Victoria che si staglia proprio di fronte e, se ti soffermi qualche secondo, potrai notare che all’interno della grande facciata è racchiuso un palazzetto di tre piani che si distingue per lo stile e la tonalità cromatica, come una strana macchia dentro tutto il bianco dell’imponente e trionfante albergo di fine ‘800. La guida turistica mi rivela che quando l’albergo fu costruito c’erano sette precedenti abitazioni che furono acquistate e demolite per far spazio alla nuova costruzione, tutte meno una: il proprietario non cedette alle offerte e così l’albergo ci fu lo stesso ma tutto intorno perchè i costruttori decisero di inglobare quel vecchio palazzetto dentro la nuova grande impresa.

Questa immagine mi ha colpito e accompagnato per tutti quattro giorni che ho passato ad Amsterdam e dintorni fino al momento del ritorno quando sono ripassato dalla stazione e quindi dall’Hotel Victoria. C’è qualcosa di significativo in questa vicenda di oltre un secolo fa: il nuovo, il progresso non si arresta e ingloba tutto, ma, magari un po’ nascosto, c’è qualcosa che resiste.

Sono arrivato in Olanda con un trolley leggero e qualche pregiudizio, bagaglio meno leggero e inevitabile: la terra del commercio (la Borsa che nasce ad Anversa nel 1460) e del libertinaggio, del sesso e della droga liberi e accessibili… Tutti pregiudizi che a una prima visita del centro della città trovano immediata conferma: la ricchezza esibita della città, l’odore di canna per le vie del centro, il quartiere a luci rosse che è il primo che si incontra scendendo dalla stazione verso il centro, con le camerette al piano terra lungo le strade, con le porte a vetri e le donne seminude che per lo più stanno in vetrina con il cellulare in mano e uno sguardo annoiato sul volto, sono le “sexworkers” che una scritta ci invita a rispettare. Se fossi un pizzico moralista, e chi non lo è almeno un pizzico? l’indignazione e la tristezza dovrebbero assalirmi cosa che accade ma non tanto ad Amsterdam quanto invece il giorno dopo a Utrecht. Ci vado perchè mi dicono che ci sono tracce di storia meno recente, addirittura qualcosa del Medio Evo ma prima di arrivare al Duomo di San Martino con la sua torre di 112 metri, la “vetta” più alta dei Paesi Bassi, il cammino è duro: quando si esce dalla stazione si è costretti a entrare in un gigantesco centro commerciale, un vero labirinto immenso separa e unisce la stazione alla città e che quindi si deve attraversare fino in fondo per giungere nella città vecchia. Mi sento violentato da questa imposizione, il vitello d’oro che domina incontrastato, una sensazione confermata dalla visione della città una volta uscito dal The Mall: una serie di canali, simile ad Amsterdam che si snoda come un serpente popolato da mille e più ristoranti, tutti pieni di gente, tutti assemblati in modo tale che l’effetto visivo è quello di un unico ristorante, rettile tortuoso e senza fine che finisce per mangiarsi la coda.

Mentre cammino per questo cammino trionfale dell’avidità e della gola, incrocio una coppia di giovani omosessuali teneramente avvinghiati e la mente vola alla notizia che avevo appena letto sulla guida: nel 1730 proprio a Utrecht ebbe luogo una serie di processi per sodomia, che sfociarono in una persecuzione degli omosessuali in tutti i Paesi Bassi. Però alla fine ci sono arrivato all’antico Duomo (costruito a metà del 1200 ma su una struttura esistente già da sei secoli) e il mio bisogno di “brivido da profondità storica” è stato appagato.

Io e Spinoza

Più difficile farlo ad Amsterdam dove le tracce ci sono ma ben nascoste nel labirintico sistema di canali concentrici che ipnoticamente sembrano condurre il visitatore sempre nello stesso luogo. Per fortuna c’è Janneke l’amica olandese storica dell’arte con le sue dritte preziose. La prima cosa da vedere in questa città è un suo “piccolo cuore”, dice Janneke, il Begijnhof, un “hof” appunto, piccolo cortile, un giardino interno che si cela dietro un portoncino quasi invisibile nel centro della città a fianco all’Amsterdam Museum. In questo luogo segreto, spoglio e silenzioso nel 1346 una confraternita di beghine raccolsero 164 piccole abitazioni che hanno svolto la loro attività fino al 1976, anno in cui muore l’ultima beghina. Ora ci vivono un gruppo di donne che custodiscono il luogo che vede, una di fronte all’altra, una cappella cattolica e una chiesa più grande degli anglicani. In pochi metri due tra le poche chiese ancora attive in città.

Una volta le chiese erano tante ad Amsterdam, sia quelle visibili che quelle nascoste. Oltre al Begijnhof per chi voglia capire qualcosa della storia di questa città che nella sua forma circolare dei suoi canali concentrici appare senza storia (se non per la rievocazione continua del Secolo d’Oro, il 1600 di Rembrandt e della sua potenza marinara) l’altra visita da fare è quella alla chiesa che in olandese si chiama Ons’ Lieve Heer op Solder, cioè Nostro Signore nel Sottotetto. Siamo appunto in quel secolo d’oro contraddistinto dalla scelta dell’Olanda a favore della tolleranza mentre in Europa ancora ci si ammazza per le guerre di religione. Un po’ di tolleranza può solo far bene, anche al commercio, ma solo un po’, cosicché i cattolici sono tollerati un po’ meno degli altri e devono rintanarsi di nuovo, dai tempi dell’Impero Romano, in luoghi privati, nelle chiese domestiche, possibilmente invisibili all’esterno, nella pubblica piazza. E così a metà del ‘600 il molto ricco e molto tollerato mercante tedesco Jan Hartman, decide di acquistare questo palazzo e di costruirci negli ultimi due piani, abbattendone i pavimenti, una grande cappella che è rimasta intatta fino ad oggi dopo che per due secoli era una delle principali “chiese cattoliche nascoste” di Amsterdam, poi nel 1887, i tempi sono cambiati, e viene consacrata la grande Basilica di San Nicola e il Sottotetto perde il suo significato. Vale la pena oggi però visitare questa “istantanea” dell’Olanda dei bei tempi della tolleranza sita in un palazzo, anche questo abbastanza nascosto, affacciato sul canale Oudezijds Voorburgwal proprio vicino al cuore del quartiere a luci rosse. Dettaglio interessante della visita sono le istruzioni che si ascoltano dall’audio-guida; trattano ovviamente argomenti religiosi e colpisce il livello, a dir molto “basic”, delle informazioni che vengono trasmesse: nella stanza del confessionale si spiega ad esempio che cosa è la confessione, che il fedele si inginocchia e dice i suoi peccati e viene perdonato dal sacerdote e così via.. Nel piccola torre di Leiden (la città di Rembrandt) avevo appreso sempre dall’audio-guida che San Pietro è colui che, tra l’altro, possiede le chiavi del Paradiso.

Meditando su questo “grado zero” della cultura religiosa, esco dal Sottotetto e percorro il labirinto del quartiere a luci rosse finchè, verso la Basilica di San Nicola, incrocio la Zeedijk (“diga sul mare”), tra le strade più antiche della città, un tempo il quartiere dei marinai poi zona prestigiosa nel famigerato secolo d’oro abitata dai più ricchi mercanti. Decaduta nei secoli successivi come luogo votato alla vita notturna e alla prostituzione negli anni ’70 la Zeedijk era preda di spacciatori, borseggiatori finchè negli ultimi venti anni ha conosciuto una ripresa insieme all’avvento di una piccola Chinatown. Sopra il portale di una delle ultime case, del ‘600, di questa strada, mentre già quasi si vede la cupola San Nicola, spicca un grande e inquietante bassorilievo raffigurante uno scheletro e la scritta Spes altera vitae. Si può sperare qui ad Amsterdam? E in che cosa? In quale vita? Mi viene in mente la battuta amara del cardinale Biffi sulla sua Bologna “sazia e disperata” ma sento un moto di ribellione alla facile conclusione di tutti i miei pensieri: sì, si può sperare, c’è un segreto, il segno di una “vittoria” da qualche parte in questa città come indica la facciata bianca dell’Hotel che saluto mentre vado a prendere il treno verso l’aeroporto, sì, c’è una possibile resistenza contro il progressivo e apparente ineluttabile processo di “inglobazione” che sembra appiattire tutto in un unico orizzonte indistinto senza altezza né profondità.

Questa speranza la ritrovo in treno leggendo un vecchio e profetico libro, scritto nel 1955 dal teologo tedesco Erich Przywara su L’idea di Europa, a patto però di prendere sul serio la raccomandazione di Huizinga, geniale pensatore olandese che mentre la sua terra era schiacciata dal tallone nazista, rifletteva sulla crisi della civiltà occidentale osservando che: «Per poter vivere ancora in comunità ordinata gli uomini devono ritrovare la coscienza del fondamento metafisico della loro esistenza, se e in quanto questa coscienza è andata perduta».

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