La bella morte di Benito (Jac)

La cosa più bella dell’opera di Benito Jacovitti era la sua completa assenza di intenti didattici o moralistici. Anche lui come Tolkien poteva tranquillamente affermare “io non predico, né insegno”. Eppure c’è un piccola grande lezione che traspare non dall’opera di Jac né dalla sua vita, ma dalla sua morte avvenuta dieci anni fa, il 3 dicembre 1997, e mi riferisco al modo con cui si è spenta la sua allegra e spensierata esistenza, un modo che ha lasciato ai suoi lettori un ultimo messaggio, forse un po’ più serioso delle sue colorate vignette, o comunque un’occasione su cui riflettere. Il grande fumettista infatti morì a 74 anni, tra le braccia della moglie Floriana, di due anni più giovane, la quale, a poche ore di distanza dal marito, ha preferito seguirlo nel suo ultimo e più avventuroso viaggio.

La morte, “l’ultimo nemico” secondo san Paolo, è oggi rimasto l’ultimo tabù: per l’uomo contemporaneo che ha raggiunto un livello di vita fisica (sia come qualità che come durata) impensabile per le generazioni che lo hanno preceduto, l’avvenimento della morte è qualcosa di tragico e sconvolgente in quanto ricorda ciò che si è preferito dimenticare, rimuovere, esorcizzare e cioè la propria finitezza e, soprattutto, la propria solitudine, sentimento che da sempre accompagna il momento della morte. Proprio per questo motivo, episodi come questo della morte di Jacovitti e della moglie, pur riproponendo all’uomo di oggi l’atavica paura della fine della vita, portano con sé anche un che di consolatorio, una cifra di calore e di speranza. Perché se è vero che l’uomo ha raggiunto il livello più alto nella lotta alle malattie ed alle sofferenze fisiche (da qui la tentazione di cancellare dal proprio orizzonte il fatto certo, ineluttabile, della fine terrena), è purtroppo altrettanto vero che la società contemporanea si contraddistingue come «società di soli», una realtà in cui la solitudine, l’isolamento tra le persone, regnano incontrastati. Si vive da soli. Viviamo nella società dei mass-media e del villaggio globale, eppure mai questa condizione d’isolamento era stata così pesantemente avvertita da ogni singolo essere umano. Si vive e (quindi) si muore da soli. Ineluttabilmente, la morte, la malattia, il dolore, si rivelano come implacabili isolanti, che lasciano il morente, il malato, da solo nella sua estrema lotta. Oggi, inoltre, la «medicalizzazione» della morte, il relegare questo evento umano nell’asettica sfera delle strutture ospedaliere, contribuisce ancora di più a privare il momento della morte di ogni residua traccia di umanità che pur dovrebbe avere. Ma forse non è stato sempre così e così potrebbe anche non essere.

La morte “congiunta” di Benito e Floriana ci rimandano con la memoria ad altri episodi, per lo più letterari, in cui l’uomo è riuscito ad imbrigliare ed imbrogliare la morte, trovando il modo per vivere questo momento da protagonista e non da vittima solitaria e disperata. Ritornano alla mente, da un passato arcaico, sepolto ma sempre vivo anche nelle fibre dell’uomo contemporaneo, le figure dei patriarchi biblici che muoiono nell’abbraccio benedicente di tutta la famiglia. Morire insieme, poi, per due persone che si amano, è un sogno romantico che tutte le coppie si promettono e, in alcuni casi, realizzano. E’ quello che accade a Filemone e Bauci, come racconta Ovidio nelle «Metamorfosi»: i due vecchietti che «riconoscendo la loro miseria e soffrendola in pace l’alleggerirono», dimostrandosi generosi con il prossimo, verranno premiati da Giove che esaudirà il loro unico desiderio, appunto quello di morire insieme, trasformandoli in due rami dello stesso albero. Questo mito classico, amato da molti autori successivi (Tolstoj lo riprenderà nel suo «Padre Sergio» – riproposto cinematograficamente ne «Il sole anche di notte» dei fratelli Taviani -), esprime un ideale agognato, più o meno consapevolmente, da ogni essere umano.

In tanti altri casi, sia nella letteratura che nella realtà (chi ha vissuto l’esperienza di assistere persone anziane nel momento della morte, lo avrà certamente osservato), l’uomo riesce a non subire la morte ma, accettandola, finisce quasi per controllarla, incanalarla, scegliendo il momento in cui cedere definitivamente, in cui dire, insieme al vecchio Simeone del vangelo di Luca: «Nunc dimittis Domine», «Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace».

C’è un modo, allora, per attraversare da vincitori la morte (e i suoi perfidi alleati, la paura e la solitudine), ed è quello indicato dai classici e dalla Bibbia: innanzitutto accentando appunto di attraversarla, poi riconoscendo la propria miseria (come Filemone e Bauci) e la propria finitezza di creatura che vive la condizione della speranza nell’esercizio della solidarietà e della pietà (come Simeone). La morte è pur sempre un momento della vita e se si ri-impara a vivere, si riesce anche a saper morire. Non viviamo da soli in questo mondo, e, se vogliamo, non moriamo da soli: questa l’ultima lezione dell’allegro “maestro” Jacovitti, forse la più alta della sua mirabolante vita.

(il presente articolo è apparso su Il Foglio il 15 settembre 2007)

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