Babel

babelE’ facilmente comprensibile il titolo che i Mumford & Sons hanno voluto dare al loro secondo album: Babel. La confusione è la situazione inevitabile in cui questi quattro giovanotti inglesi sono piombati all’indomani del 5 ottobre del 2009 quando uscì il loro primo album, Sigh no more che in meno di tre anni li ha resi a livello mondiale la rock-band più famosa del momento.

[questo articolo è stato pubblicato sul n.1/2013 de La civiltà cattolica del 5 gennaio 2013]

Ma i quattro (Marcus Mumford, cantante, chitarrista e frontman del gruppo, Ben Lovett, il tastierista, Winston “Country” Marshall il banjoista e Ted Dwane il bassista, uniti da un sodalizio nato oltre cinque anni quando si esibivano nei pub e nei club della scena folk della West London) sembrano non scomporsi più di tanto, a partire dalla foto di copertina di Babel: stanno lì seduti su una panchina di legno con uno sguardo ad un tempo serio e allegro che forse già esprime il tono e il contenuto delle 14 canzoni dell’album.“Perché so che il tempo mi ha contato i giorni” canta sapientemente con la sua bella voce intensa Marcus nel primo verso della prima traccia che dà il titolo all’intero cd, come a dire: godiamoci questo momento perché niente è più effimero di un successo solo umano e, continua: “Ma scrivo a casa ridendo, guardatemi ora, i muri della mia città si sono sgretolati/ non ho mai vissuto un anno speso meglio che ad amare/ Perché conosco la mia debolezza, conosco la mia voce, crederò nella grazia e nella scelta/ E so che forse il mio cuore è una farsa, ma nascerò senza alcuna maschera”.

Alcune parole-chiave nel lessico dei Mumford: debolezza, grazia ma anche ridendo e maschera. In queste canzoni, anche quelle più cupe, si ride, si sente la forza di una sana euforia che dilaga specialmente nei concerti dal vivo sempre più gremiti da un “popolo” intergenerazionale perchè in questa musica confluiscono cose antiche, il folk britannico e la musica popolare americana e cose nuove, un sound grintoso e una ritmica tutta rock. Gli strumenti sono vecchi (il contrabbasso, la chitarra acustica e soprattutto il banjo sempre in primo piano) ma l’atmosfera è quella contagiosa e “muscolare” del rock più puro. Tutto questo “senza alcuna maschera”, la faccia pulita di Marcus Mumford & co. ha conquistato le platee di tutto il mondo, c’è una schietta semplicità nei testi (quasi tutti sull’amore) e nei modi, sin anche nell’abbigliamento un po’ retro’, di questi ragazzi. Che ci tengono però a precisare che “autenticità” non significa “originalità”, un dogma al quale non credono: “Ci accusano di inautenticità perché suoniamo gli strumenti che suoniamo,” ha detto in una recente intervista Marcus, “questa cosa dell’inautenticità non mi ha mai preoccupato. Non da quando ho realizzato che Bob Dylan, probabilmente il mio artista preferito di sempre, se ne è sempre fregato dell’autenticità. Ha cambiato nome. Si è ispirato a Woody Guthrie. E ha mentito a tutti su chi fosse realmente”. Da questo punto di vista i Mumford & Sons sono “classici”: ascoltandoli ci si sente accolti nell’alveo di una musica che si conosce, da sempre. La novità è nell’entusiasmo, la grinta con cui questi ragazzi offrono la loro musica a tutto il mondo, con la semplicità con cui lo facevano fino a poco tempo fa negli oscuri pub della zona west di Londra.

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