Ricordo di zio Riccardo, dodici anni dopo

Ri-pubblico volentieri l’articolo apparso cinque anni fa su Il Foglio, dedicato alla figura di mio zio, Riccardo Misasi, scomparso il 21 settembre 2000.

Qualche giorno prima della morte, avvenuta sette anni fa, il 21 settembre del 2000, Riccardo Misasi, per me più che uno zio un secondo padre, parlando in famiglia della situazione politica ebbe a fare la seguente predizione: “Nel 2001 vincerà Berlusconi, non riuscirà a governerà bene e dopo cinque anni vincerà di nuovo Prodi “calando” dall’Europa”. Al momento dell’improvvisa e imprevista scomparsa di zio Riccardo (aveva 68 anni e il giorno prima aveva vigorosamente nuotato, com’era solito fare, nel mare della sua costa calabrese) dimenticai quelle parole ma, durante il quinquennio berlusconiano, quando era evidente l’affanno del governo ma anche quello di Prodi (spesso dato per “bollito”, fino all’exploit delle primarie), più volte mi tornarono alla mente e più volte dissi, con rammarico: “questa volta zio non c’ha preso”. E invece aveva ragione, come al solito. Fino al 2000 io, appassionato di politica, leggevo pochissimo i giornali: c’era zio (e forse per questo sono meno appassionato oggi che mi sono rimasti solo i giornali). Il fatto è che zio Riccardo aveva innanzitutto un bel carattere, cioè era un uomo buono. Pensava, come i greci che “la più grande furbizia è l’onestà” e quindi credeva che alla fine la verità si affermava con la forza dei fatti e lo ha pensato anche quando è stato aggredito e politicamente “liquidato” da un’assurda vicenda giudiziaria. Verum ipsum factum, ripeteva citando Vico, uno dei suoi filosofi più amati, insieme agli altri italiani, tutti meridionali (il “suo” Telesio concittadino di Cosenza, il sommo Tommaso d’Aquino e anche Benedetto Croce, sua personale “croce e delizia”): era convinto che in Italia, anche per motivi climatici, al Nord si lavorava di più, ma al Sud si pensava di più. E zio pensava, e studiava, e ragionava, attitudini che appaiono obsolete nella seconda repubblica. “Era così politico” ha scritto sul Popolo il suo amico De Mita il giorno della morte:, “da apparire oggi antipolitico”.

Il pensiero e la cultura, per zio erano requisiti essenziali per chi volesse fare politica. Insieme al cuore, alla pietà. La politica per lui era quell’arte che ha a che fare con la faticosa organizzazione della speranza e non con la soluzione dei problemi in termini astratti e definitivi, perché non si dà società perfetta qui sulla terra. In questo era perfettamente sturziano, e moroteo. Come Moro pensava che “in politica i problemi non si denunciano ma si affrontano”. Durante il caso Moro, egli fu, tra gli esponenti DC, uno dei più silenziosi ma anche dei più attivi verso la via della trattativa (tra l’altro Moro in una lettera a lui diretta si dimise da presidente del partito e lo nominò suo successore), tutto questo per salvare la vita di un uomo e di un amico. A volte zio si divertiva a rovesciare il famoso detto aristotelico in “Amica veritas, sed magis amicus Plato”, forse anche per questo apprezzò il tentativo di apertura verso la trattativa che all’epoca fece Bettino Craxi in prima persona, e a chi, in seguito, gli proponeva la lettura di un Craxi interessato a smarcarsi dal PCI, ribatteva difendendo la sincerità del segretario socialista in quella battaglia e invitando l’interlocutore ad abbandonare la facile scorciatoia della dietrologia (“un retropensiero non è un pensiero”). Zio Riccardo ricordava spesso che la differenza tra un cristiano e un non credente in politica sta nel senso del peccato, cioè del limite, della fragilità dell’uomo, un senso che rende più umile e quindi più intelligente il credente. Per tutta queste serie di motivi era arrivato alla conclusione, forse sorprendente anche per chi lo conosceva da vicino, che mise per iscritto in un bel saggio storico sul Medio Evo (Storia di un libero comune, Rubbettino,1998), che “il cristiano non può essere un conservatore”; proprio perché “non si arriva mai”, il cristiano è rivolto sempre verso il futuro, “guardando avanti, con cuore antico”.

Il cuore per zio si è fermato a 68 anni, troppo presto. Mi chiedo cosa direbbe oggi di fronte allo scenario attuale che vede l’imminente nascita del partito democratico guidato da Veltroni (anche questo previsto molti anni fa) e immagino non una risposta precisa ma lo stile della sua risposta: pacato e teso ad asciugare sia l’emotività (“la politica non si fa con il sentimento, tantomeno col ri-sentimento”) che l’inevitabile tendenza all’indignazione e al facile moralismo. Ecco, zio era l’opposto del moralismo (“i moralisti non sono morali”) e temeva la tentazione dell’angelismo, che di fatto riscontrava spesso nella corrente della sinistra dossettiana, dei cattolici democratici. Tra questi aveva alcuni amici, soprattutto lo sfortunato Roberto Ruffilli con cui (sempre De Mita sul Popolo) intrecciava splendidi e divertenti “duetti, fatti di ci­tazioni e di riferimenti letterari”. Con Bobo Ruffilli, specie d’estate, nel mare di Calabria, amava soprattutto ridere. Zio infatti, soprattutto nelle ricorrenti riunioni familiari, con tutti i figli e i nipoti intorno, fatte di aneddoti, giochi di società (voleva sempre vincere lui) e grandi mangiate, rideva in modo formidabile, simile ad una cascata trascinante e coinvolgente…una forza della natura che finalmente si liberava da chissà dove e che mi ricorda sempre la battuta di Thomas Carlyle: “Nessuno che una volta abbia riso veramente di cuore può essere irrimediabilmente cattivo”.

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