E così sei mesi sono passati, da quella sera umida di pioggerellina ma piena di calore del 13 marzo scorso, quando lo sconosciuto Jorge Mario Bergoglio si è presentato come Papa Francesco. Ancora una volta i cardinali avevano applicato la “mossa del gambero” e se il 19 aprile del 2005 avevano eletto uno dei tre elettori superstiti del Papa precedente, ora avevano ripreso il discorso da dove s’era interrotto sette anni prima facendo convergere il loro voto sul “primo dei non eletti” del precedente conclave. E il settantaseienne outsider si è fatto subito conoscere dal mondo intero che oggi è affascinato da questo Papa seriamente gioioso che sorprende quotidianamente coniugando il rigore del magistero più ortodosso con la fantasia più spigliata e sudamericana nei gesti e nelle improvvisazioni, tra il ricorrente monito a tutti di stare attenti a Satana e l’invito ai giovani pessimisti di recarsi dallo psichiatra.
Il minimo che si possa fare per dire qualcosa di questi sei mesi che hanno cambiato la storia della chiesa cattolica, già rivoluzionata dal gesto dell’11 febbraio con cui Benedetto XVI ha tenuto a battesimo l’attuale pontificato, è provare a riassumere Papa Bergoglio così come farebbe lui, con il metodo “ternario” usato nelle omelie quasi tutte sviluppate attraverso l’articolazione su tre parole-chiave (metodo che scaturisce direttamente dalla formazione gesuitica del pontefice: è S.Ignazio che insegna nei suoi Esercizi a muoversi secondo i tre momenti di esperienza-riflessione-azione). Proviamo quindi a selezionare tre verbi per condensare i primi 180 giorni di Papa Francesco: toccare, camminare, perdonare.
TOCCARE
Questo è un Papa che tocca. Non tanto il “cuore”, piuttosto la carne. Toccare la carne di Cristo, questo vuol dire andare nelle “periferie”, altra parola-chiave del suo lessico. E’ chiaro a tutti che nel parlare così Bergoglio non sta facendo del facile sociologismo: la Chiesa, ripete spesso, non è una “ONG pietosa” ma è una famiglia in cammino con la missione di abbracciare, accogliere e toccare, nei fratelli, “la carne di Cristo”. E quindi lui tocca. Sono ormai migliaia le fotografie che ritraggono il corpulento Papa argentino che si tuffa per abbracciare i bambini, i malati, il suo è un cristianesimo “tattile”, fatto di baci ed effusioni che vogliono far sentire vicino Cristo, il suo calore, la sua tenerezza. Di questo programma fanno parte oltre i baci e gli abbracci, anche il saluto semplice e cordiale con cui ha esordito e che ancora accompagna ogni suo discorso: quel “buonasera!” come prima parola con cui si è presentato è stato come un pezzo di sole penetrato in un frigorifero pieno di ghiaccioli. Abbracciare, salutare e, terzo elemento costitutivo del “toccare”, il parlare diretto, quel “tu” che più di tutto il resto azzera le distanze, per cui ogni omelia ad un certo punto viene declinata con il rivolgersi alla seconda persona singolare. 35 anni fa Albino Luciani, l’umile Papa del sorriso, era passato dalla prima persona plurale a quella singolare, oggi un suo diretto successore in fatto di stile, è passato al “diamoci del tu”, con cui tra l’altro comincia le chiacchierate telefoniche che suole fare a vecchi e nuovi amici.
Francesco si rivolge alla gente, cosi come Benedetto alla mente dell’ascoltatore e Giovanni Paolo alle masse che venivano a vederlo. Dice Chesterton che il santo è un “antidoto”, colui che più di ogni altro confuta l’epoca in cui si trova a vivere. Gli ultimi tre Papi sono dunque “santi” nel senso che Wojtyla, polacco fuoriuscito da nazismo e comunismo ha usato il parlare alle masse, proprio di quelle dittature, contro di esse, contribuendo alla loro fine, abbattendone i muri d’odio; il tedesco Ratzinger ha voluto tessere il dialogo tra mente e cuore, tra credenti e non credenti, in nome della ragione e degli ideali che l’uomo del post ’89 aveva buttato insieme all’acqua sporca delle ideologie; l’argentino Bergoglio sa che l’uomo di oggi, orfano delle grandi ideologie, rifiuta l’essere massificato ma al tempo stesso non appartiene più a nessuno e vive nella fredda solitudine di un individualismo senza limiti, che rende le relazioni fragili, senza nome, volto, calore. A questa gente si rivolge, chiamando una ad una le persone, dandogli del “tu”, riscattandole dall’insignificanza, dialogando con loro come aveva cominciato a fare il suo predecessore. Ancora Chesterton, quando parla di San Francesco, lo accosta alla figura di San Benedetto e osserva che il santo di Assisi “ha sparso nel mondo quello che Benedetto aveva seminato”; anche oggi si può dire Francesco sta spargendo, vigorosamente (in ossequio all’auspicio contenuto nel congedo di Ratzinger), quello che era stato prima seminato.
Il “toccare”, così articolato – abbracciare, salutare, dare del “tu” – ha reso questo un Papa “vicino” e ha subito conquistato un enorme consenso, dentro e fuori la chiesa, soprattutto fuori, visto che dentro molti hanno cominciato a storcere il naso, anzi a continuare a tenerlo storto dopo che Benedetto XVI lo aveva del tutto stravolto con il gesto più “ravvicinante” possibile e proprio per questo scandaloso. Se Benedetto ha sorpreso e deluso l’ala più conservatrice del popolo cattolico, Francesco è probabilmente destinato a deludere l’ala più progressista anche perchè la tanto attesa riforma della Chiesa, cominciata con la riforma del papato operata da Ratzinger (il saggio “nonno” come il Papa governante chiama il Papa orante) è facile prevedere che continuerà non però nella direzione della dottrina ma solo dell’organizzazione. Dopo il papato, ora toccherà alla Curia, ma qui passiamo alla seconda parola: camminare.
CAMMINARE
E’ una parola-chiave che ritorna spessissimo nei discorsi di Papa Francesco. E innanzitutto non è una parola, ma un verbo, di moto. Bergoglio sa che, come dice il Prologo di San Giovanni, “In principio era il Verbo”, il verbo, non il sostantivo. Sa che cristiani non si è, ma si diventa, lottando, sporcandosi le mani e anche i piedi, percorrendo le strade degli uomini, realizzando così il desiderio di seguire Gesù e il suo vangelo. Nell’omelia del 10 maggio ha spiegato che la gioia, segno distintivo dell’appartenenza alla Chiesa di Cristo, non può restare ferma: “…se noi vogliamo avere questa gioia soltanto per noi alla fine si ammala e il nostro cuore diviene un po’ stropicciato, e la nostra faccia non trasmette quella gioia grande ma quella nostalgia, quella malinconia che non è sana. Alcune volte questi cristiani malinconici hanno più faccia da peperoncini all’aceto che proprio di gioiosi che hanno una vita bella. La gioia non può diventare ferma: deve andare. La gioia è una virtù pellegrina. E’ un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada”.
E Bergoglio cammina. Lo sanno bene i media e gli osservatori che non riescono a tenere il suo passo. Cammina, non viaggia (ha viaggiato poco e non viaggerà molto, Benedetto di dieci anni più vecchio ha viaggiato molto di più), nel senso che è sempre in movimento, è sempre sorprendente, pronto a cambiare le carte in tavola o a far saltare il tavolo del tutto, per cui è ormai sicuro che il “tavolo” della Curia non sopravviverà agli scossoni del nuovo vescovo di Roma.
Due fotografie in questo senso hanno avuto una forza dirompente più di altre in questi sei mesi: la poltrona vuota dove avrebbe dovuto sedersi per ascoltare il concerto della Rai del 22 giugno in suo onore e quella che lo vede salire un mese dopo la scaletta dell’areo per il Brasile, da solo, con la valigetta 24 ore e nient’altro. Anche qui: attenzione a non confondere questi gesti come cedimenti ad uno sciatto pauperismo. Papa Bergoglio pure in questo caso sta solo spargendo nel mondo il seme benedettino, il suo è un approccio non sociologico ma all’opposto, escatologico, proprio nel senso che Ratzinger ha illustrato nel discorso nel convento dei Bernardini cinque anni fa, il 12 settembre 2008, quando parlando dei monaci ed amanuensi che nel Medio Evo avevano salvato la cultura occidentale, ha affermato che non era intenzione di quei monaci “creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla”. Il camminare è costitutivo di quella “spedizione” che è la sequela di Cristo; è questa l’escatologia esistenziale di Benedetto che Francesco ha fatto sua e si potrebbe tradurre con una parola, un sostantivo più “moderno” del ruvido linguaggio della Bibbia fatto per lo più di verbi: tensione. E’ un papato quello di Francesco ricco di tensione, la stessa innescata dal gesto dell’11 febbraio operato dal suo predecessore, un gesto di una portata talmente epocale che ancora non è stato compreso pienamente. Ci ha provato con grande acume Giorgio Agamben con un breve saggio (“Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi”) ponendolo appunto nella luce dell’orizzonte escatologico, convinto come è che con il suo gesto “Benedetto XVI ha dato prova non di viltà […] ma di un coraggio che acquista oggi un senso e un valore esemplari”. Per il filosofo italiano la scelta di Ratzinger ha permesso uno scatto, un salto di qualità alla Chiesa che è passata dalle “cose provvisorie” (l’organizzazione del quotidiano), al “definitivo” (la sequela di Cristo fino alle estreme conseguenze). Lo stesso coraggio di Benedetto oggi muove il suo successore ogni giorno impegnato, dalla “stanza d’albergo” in cui vive, a mantenere il suo gregge in tensione, consapevole che se ci si ferma si muore di autoreferenzialità, il peggiore peccato della Chiesa secondo Francesco. Punto d’unione tra i due Pontefici che insieme stanno collaborando, fino a stendere a quattro mani l’enciclica Lumen Fidei, è la figura del santo dell’inquietudine, Agostino, a cui il Papa ha dedicato queste chiarissime parole il 28 agosto scorso in occasione della sua festa: “Ma anche nella scoperta e nell’incontro con Dio, Agostino non si ferma, non si adagia, non si chiude in se stesso come chi è già arrivato, ma continua il cammino. L’inquietudine della ricerca della verità, della ricerca di Dio, diventa l’inquietudine di conoscerlo sempre di più e di uscire da se stesso per farlo conoscere agli altri. E’ proprio l’inquietudine dell’amore. […] Il tesoro di Agostino è proprio questo atteggiamento: uscire sempre verso Dio, uscire sempre verso il gregge… E’ un uomo in tensione, tra queste due uscite; non “privatizzare” l’amore… sempre in cammino!”.
PERDONARE
Sin dai primissimi discorsi Papa Bergoglio è apparso come il Papa della misericordia. E’ questo il messaggio che più di ogni altro gli preme annunciare: Dio è un padre misericordioso, che non smette mai di perdonarci, purtroppo siamo noi uomini che smettiamo di chiedere perdono.
Ancora una volta una sorta di “prolungamento” della predicazione ratzingeriana, che può essere spiegato con le parole di Chesterton: “I bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre la maggior parte degli adulti è malvagia e preferisce la misericordia”. Se Benedetto è il Papa della giustizia e della gioia (è stata la parola da lui più volte pronunciata) perchè ha parlato per convincere il mondo che la noia è frutto del peccato, Francesco sa che “la gioia non può diventare ferma: deve andare” ed è quindi più diretto, crudo e parla al cuore ferito degli uomini convincendoli che quella stessa gioia è frutto del perdono e del gesto, doloroso, del lasciarsi perdonare.
L’annuncio di Francesco da questo punto di vista è stato dirompente: ha offerto al mondo il volto buono della religione non giudicante ma accogliente. Non a caso la frase che forse più di altre ha universalmente colpito, dentro e fuori la Chiesa, è stata la battuta pronunciata in aereo tornando dalla GMG di Rio a Roma, quando parlando degli omosessuali “pieni di buona volontà che cercano Dio” ha detto: “chi sono io per giudicarli?”. Per comprendere il motivo del successo di questa frase è utile leggere il saggio di Roger Scruton (Il volto di Dio) che riflette sul fatto che l’uomo occidentale ha rimosso il sacro perchè dal volto di Dio si sente giudicato: “tra i numerosi motivi che si celano dietro l’ateismo contemporaneo c’è anche il desiderio di sfuggire all’occhio che giudica. E per sfuggire all’occhio che giudica si spazza via il volto a cui appartiene”. Gli uomini occidentali che oggi fremono di gioia per la battuta di Papa Francesco sentono un caldo richiamo a tornare a quella casa che negli ultimi due secoli hanno demolito perchè era troppo forte la tentazione di zittire la voce giudicante della Chiesa amata come Madre ma rifiutata come Maestra (l’azzardo non solo logico ma esistenziale di separare i due volti della Chiesa è astruso quanto il voler distinguere i due pontefici che attualmente ne sono a capo). Da qui il successo di una battuta, con la quale il Papa è stato semplicemente voce del Vangelo e interprete fedele della tradizione millenaria della Chiesa offrendo la Buona Novella rivoluzionaria dell’uomo di Nazareth così come è stata pronunciata la prima volta, colloquiando all’interno di un gruppo di amici, che si guardano negli occhi, faccia a faccia, con tutto quello che ciò comporta.
IL SOGNO
Cinquant’anni fa M.L.King disse al mondo di avere un sogno. Sembrarono, quelle parole, l’inizio di una nuova primavera, ricca di speranza. Così appaiono anche i primi sei mesi di pontificato di Papa Francesco, il quale in realtà sta solo realizzando il sogno di Benedetto XVI. Si è parlato molto delle presunte rivelazioni su come lo stesso Ratzinger avrebbe descritto il processo che lo ha portato alla sua decisione; si è accennato ad una “esperienza mistica”; forse non si saprà mai tutta la verità di quel gesto straordinario, basti per ora quanto ha detto lo stesso Benedetto l’11 febbraio, che ha deciso cioè “dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio” e non può non venire in mente che il nome di questo piccolo uomo della Baviera, Joseph, è lo stesso di due grandi personaggi della Bibbia, entrambi presentati come due sognatori. E’ alla luce del sogno escatologico di Joseph Ratzinger che si può comprendere più profondamente la forza del suo successore, capace di contagiare, di un sogno non suo, chi incrocia il suo cammino.