Ancora sul figliol prodigo. Non c’è niente da fare, questo testo del capitolo 15 di Luca è inesauribile, davvero divino. Sono anni che ci giro intorno, lo leggo e lo rileggo, e non ne esco fuori. Ed è sempre nuovo, come acqua zampillante da un pozzo senza fondo. Forse anche per questo voglio mettere nero su bianco quello che, ora, penso in merito alla più famosa tra le parabole di Gesù. Dunque:
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la parabola sembra dirci che noi siamo figli e Dio è padre, padre misericordioso. In fondo è questo il compito di Gesù: farci conoscere il Padre, e conoscendo il Suo mistero comprenderemo anche qualcosa del nostro mistero;
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tra noi e il Padre c’è un abisso, noi non riusciamo ad essere come lui è, a comportarci come lui si comporta, lui ha un modo di fare che per noi risulta scandaloso. Questo abisso, che noi apriamo non è colmato da noi, ma da lui che ci viene incontro (e questo è lo scandalo);
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se c’è una “morale” della parabola allora non è tanto quella che noi dobbiamo imparare ad essere come il Padre, cosa che appunto sembra molto difficile, ma che dobbiamo imparare ad essere quello che già siamo, figli, condizione delicata e difficile, che spesso noi rifiutiamo, “emancipandoci”, uscendo e fuggendo “dalla mano” di Dio.
C’è di più. Oggi mi sembra che, rileggendo la parabola, i figli non siano due ma soltanto uno. Non vedo una grande dicotomia, come facevo quando ero più giovane, tra le due figure, il maggiore e il minore, che in effetti ci vengono presentati agli antipodi (Gesù come narratore è un fine psicologo): così selvaggio e ribelle il minore, così ligio, moderato e triste il secondo. Ma in fondo, noi non siamo forse così? Non siamo innanzitutto contraddittori? Dentro di me, se guardo bene, c’è tutto e il contrario di tutto, io sono ribelle e docile, mite e rabbioso, permaloso e generoso, pavido e spavaldo, forte e debole.. che guazzabuglio che è il cuore dell’uomo! E Gesù ce lo rappresenta molto bene con questa storia dei due fratelli che, dettaglio rivelatore, non si incontrano mai nelle varie scene della parabola, proprio perchè sono già uniti, i due sono uno solo, sono la stessa persona vista da due angolazioni diverse, un “trucco narrativo” che permette di scoprire molte cose interessanti. Si potrebbe dire, ad una prima approssimazione, che due sono le “direzioni” verso cui si muovono, peccando, le due figure: il minore è colui che pecca “in verticale”, nei confronti di Dio, è colui che rompe con il Padre; il maggiore è colui che pecca “in orizzontale”, nei confronti del fratello. In realtà, ed è questo uno dei messaggi fondamentali del racconto, il maggiore pecca contro il fratello perchè ha già “rotto” con il Padre (i due fratelli sono uno solo, me, ogni uomo). Ogni uomo rompendo il rapporto con Dio-Padre, rompe anche il rapporto con i fratelli: nessun Padre, nessun fratello; la fraternità passa attraverso il riconoscimento della figliolanza. Del resto così era cominciata la Scrittura: Adamo ed Eva rompono con Dio e subito dopo Caino uccide Abele.
A volte essere figli sembra più semplice di essere fratelli. L’invidia e la gelosia sono all’inizio di tanti guai. Essere figli in fondo è la cosa più naturale di questo mondo: tutti gli uomini che nascono sono figli, non tutti saranno padri ma tutti sono e saranno sempre figli. Una condizione naturale ma non scontata, che forse deve essere riconquistata tutti i giorni. E non è semplice, come indica la vicenda di Adamo ed Eva. Ma perchè i nostri progenitori hanno fallito? Essi hanno spezzato la loro amicizia con Dio perché vengono traviati dal serpente e la tentazione è semplice: se mangerete del frutto proibito sarete come Dio. I figli dunque rifiutano la loro condizione e vogliono sostituirsi al Padre, in quest’ottica traviata dal Maligno i limiti che in realtà sono per noi salvifici diventano delle proibizioni insopportabili, che esistono non per custodirci ma per spingerci alla trasgressione.
Similmente nel brano di Luca: il figlio (sia nella versione del minore che in quella del maggiore) vuole sostituirsi al padre, rifiutando la sua condizione di figlio. Vediamo meglio.
Il figlio minore si rivolge al padre per chiedergli l’eredità. Ma il padre è ancora vivo, il che vuol dire che per il figlio il padre è già morto: il figlio uccide il padre, lo ha ucciso nel suo cuore, per lui il padre è ridotto a un portafoglio, una cassa da svuotare. Il figlio non vuole andare via per costruirsi una vita propria, per diventare un nuovo “padre”, ma per dissipare quell’eredità, la sua è una ribellione sterile. Fuggire dalla casa del padre equivale ad allontanarsi dalla strada della vita, perchè in effetti il destino a cui è diretto il figlio è la morte: poche scene dopo lo vediamo steso per terra in mezzo ai porci, ora è lui il morto. Chi uccide Dio uccide se stesso, taglia le radici dell’albero su cui è seduto. Da quella posizione orizzontale il figlio minore decide di rialzarsi, dicendo a se stesso: “mi leverò”, che è il verbo greco della risurrezione, a sottolineare il dato di fatto della sua morte. Eppure basta il ricordo del padre, della sua bontà, a farlo risorgere, a “convertire” il suo cammino di nuovo verso la casa della vita. Particolare inquietante: il figlio minore non torna perchè contrito ma perchè ancora continua a considerare il padre come “portafoglio”, come un padrone che comunque rifocilla i suoi salariati: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!”. Più che l’amore filiale è la fame a spingerlo. Il particolare è inquietante, perchè molto realistico, ma fa risplendere ancora di più la bellezza del padre misericordioso, protagonista della parabola. Il figlio minore ha dunque ucciso il padre, l’ha sostituito con l’immagine del padre-padrone e continua fino in fondo a considerarlo più che altro un duro e severo datore di lavoro, il che fa pensare che è scappato da casa proprio perchè tale era l’immagine che si era fatto del padre (forse a causa del “clima” in casa creato dalla solerzia del figlio maggiore così serio e diligente?). Non solo ha ucciso il padre ma vuole anche mettersi al posto suo, non solo dissipando, “a sfregio”, tutta l’eredità, la sua somiglianza con il Padre, ma anche volendo insegnare al padre come si fa ad essere padre, volendo imporre il suo schema di paternità: “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.Usa l’imperativo il ragazzo e impone al padre lo schema che lui si immagini sia degno di un padre. Ha un senso molto forte del rispetto e della dignità del padre, ma tutto è sul piano formale: egli rifiuta la dimensione sostanziale dell’amore e del perdono.
Il figlio maggiore, opposto al fratello sotto molti aspetti, finisce per fare la stessa cosa, anche perchè i due, appunto, sono uno solo. Egli dunque uccide il padre sostituendolo con la sua immagine di padre-padrone e mettendosi sul piedistallo per insegnargli come si dovrebbe comportare un vero padre. Per il figlio maggiore il padre non è un padre buono ma un padrone severo, a cui bisogna sempre rendere conto, rivendicando i propri diritti: “Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso”.
Il suo peccato è molto più comune e “sottile” di quello del fratello più giovane, lui non va a prostitute e ai casinò, non si droga e non commette eccessi e peccati clamorosi… niente di tutto questo, è un grigio impiegato della vita, un serio e diligente lavoratore nella vigna del padre, che però (proprio come il suo alter-ego-fratello) si è fatto un’idea del padre come padre-padrone che ha preso il posto della persona reale del padre che egli non ama bensì teme, un duro e severo datore di lavoro, proprio come il servo che riceve un solo talento nell’omonima parabola.
Per questo figlio (nelle due diverse ma coincidenti versioni del minore e del maggiore) che è l’uomo, ogni uomo, Gesù è venuto e ha parlato per mezzo delle parabole proprio per distruggere le false immagini di Dio e indicando nell’amore e nella misericordia l’essenza di quella paternità. A conferma della coincidenza dei due figli in uno, c’è il fatto innegabile che i due sono d’accordo nel voler insegnare al padre come si fa ad essere padre: anche il figlio maggiore è d’accordo con il fratello e ordina al padre di trattarlo come l’ultimo dei suoi garzoni. I due fratelli sono d’accordo nel condannare il comportamento del fratello minore, solo il padre non è in linea perchè tra noi e il Padre c’è un abisso e noi non riusciamo ad essere come lui che ha un modo di fare che per noi risulta scandaloso: le sue vie non sono le nostre vie.
I due figli sono moralisti e didattici, il padre non insegna nulla, egli ama e basta, senza condannare e mettersi sul piedistallo. E’ un padre davvero singolare questo della parabola, lo vediamo non dire una parola di fronte alla “dichiarazione di morte” del figlio minore (“dammi la parte di eredità che mi spetta”), accettare quindi la morte, e lo vediamo per ben due volte uscire fuori di casa, proprio come fanno i due fratelli, che si muovono sempre al di fuori della casa che è il luogo della vita. Il padre scende dalla sua poltrona-trono che in teoria contraddistingue la sua potestà, egli perde dunque ogni “dignità paterna” e va fuori, lì dove non c’è vita, per portare la vita lì dove c’è la morte, andando incontro ai figli, a tutte e due.
Le parabole di Gesù quindi non sono didattiche né tantomeno moralistiche (anche per questo sono scandalose per gli schemi umani) ma inesauribili come testi che zampillano vita ad ogni rilettura.
Non ha quindi una “morale” la parabola (semmai la parabola è una morale), per cui non si tratta del dover imparare ad essere come il Padre, cosa che appunto risulta impossibile ma che dobbiamo imparare ad essere quello che già siamo, figli, condizione delicata e difficile, che spesso noi rifiutiamo, “emancipandoci”, uscendo e fuggendo “dalla mano” di Dio.
Il finale della parabola, inevitabilmente aperto (Vangelo è tutto ciò che apre), sta lì a significare che per entrare nella casa della vita piena che festeggia grandiosamente, non bisogna fare molte cose, come immagina il rancoroso fratello maggiore pronto subito a recriminare e rivendicare, quasi fosse un sindacalista, tutto il lavoro svolto mostrando il tesserino timbrato tutti i giorni (un po’ come quei cristiani che non si perdono una novena, un triduo, una processione e magari un fioretto molto ascetico), ma forse non bisogna fare niente bensì lasciar fare, lasciar fare a Dio, Padre premuroso che tiene in braccio i propri figli. Proprio come fanno i bambini piccoli, neonati, abbandonati fiduciosamente nelle mani dei genitori. Proprio come fa il figlio minore che alla fine non oppone più resistenza e si lascia prendere in braccio dal padre e buttare dentro la festa.