Il Papa, come ogni altro essere umano, desidera ardentemente essere riconosciuto. Il riconoscimento è meta e fondamento di ogni esistenza umana, raggiunto il quale ci si apre alla riconoscenza, essenza della felicità. Nel caso del Papa, a pesare sulla bilancia, c’è anche il suo rapporto con il popolo dei cattolici, il quale a sua volta, desidera ardentemente riconoscere il Papa. Quando avviene questo riconoscimento? Detta in termini più prosaici: che cosa, in particolare, ci colpisce del Papa? In ossequio alla natura vicaria del suo ufficio, il Papa colpisce, profondamente, e quindi viene da riconosciuto quando sul suo volto brilla la luce riflessa del volto di Cristo. E qui si ferma la teoria per passare al breve racconto della mia personale esperienza con i Papi della mia vita, un racconto essenziale per rispondere al se e quando gli ultimi cinque Papi sono stati “volto di Cristo”.
Francesco
Meglio procedere a ritroso, partendo dal Papa attuale, mi riferisco a Francesco che già dal nome scelto ha indicato la sua radicale e rigorosa adesione a quella natura vicaria che è l’essenza del Papato. Francesco d’Assisi è stato definito “alter Christus”, perfetta definizione anche di ogni cristiano e di ogni Papa. E l’argentino Francesco si è fatto subito riconoscere, il popolo ha immediatamente riconosciuto nel suo vescovo l’immagine di Cristo. Quale immagine in particolare? A me viene in mente l’episodio della donna emorroissa (Mc 5,25-34), che si mescola tra la folla con la speranza di toccare anche solo il lembo del suo mantello e quando riesce a toccarlo, Gesù «avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Francesco è il Papa “tattile”, quello che tocca, che si china umilmente sulle ferite delle singole persone, ponendosi allo stesso livello degli uomini di questo mondo, che immagina la Chiesa come un “ospedale da campo”, che cammina mescolandosi tra la gente ma sempre “guardando intorno, per vedere” non la folla indistinta ma la singola persona che attende di essere toccata, risollevata. Francesco è il Papa che chiama con il “tu” gli uomini, che li cerca, anche quelli lontani come Scalfari, e li guarda negli occhi, li tocca nel profondo con la ruvida tenerezza del Vangelo. Chi vede Bergoglio, credente o non credente, vede un uomo che non solo predica Cristo, ma lo incarna, lo imita, vive in fondo quella sequela che è l’anima della vita cristiana. Da qui il “successo” di Papa Francesco, da quel riconoscimento che scatta quasi automaticamente: ecco un vero cristiano, un alter Christus.
Benedetto XVI
Tutt’altro è lo stile dell’altro Papa attuale, Joseph Ratzinger che accompagna il cammino di Francesco chiuso nel convento di clausura dentro le mura Vaticane. Per come è sembrato subito potente il Papa argentino (dotato di quella potenza che “esce da lui” ogni volta che tocca gli altri) così è apparso fine, fragile e impaurito il Papa tedesco che da subito ha chiesto al suo popolo di pregare perchè “il pastore non scappi di fronte ai lupi”. E come dei veri e propri lupi dovevano apparirgli le grandi folle che lo hanno accolto nei 7 anni di pontificato, quelle folle in cui Francesco si getta a capofitto e che invece paralizzavano l’azione e la comunicazione di Benedetto. C’è però un punto di contatto tra i due pontefici attualmente viventi in Vaticano, e ciò nulla ha a che fare con l’oziosa, giornalistica, questione della (dis)continuità tra Papi, e questo punto è l’umiltà. Un punto di contatto tra di loro e tra loro e Cristo. Quale immagine possiamo evocare per riconoscere Papa Benedetto? A me viene in mente l’inno cristologico di San Paolo ai Filippesi: «Cristo, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil, 2,6-11). Benedetto è il Papa che si è spogliato. L’11 febbraio 2013 con un ultimo gesto clamoroso, ha scelto la via non clamorosa del silenzio e dell’oblio, del nascondimento. E’ il Cristo dei primi 30 anni di vita, la vita non pubblica, nascosta e tranquilla di Nazareth. In quel gesto dell’11 febbraio, che dura ancora oggi e durerà fino a che Benedetto vivrà e anche dopo come esempio inquietante e luminoso, il popolo di Dio ha potuto riconoscere il Vicario di Cristo. In questo lungo “martirio bianco” figlio del gesto dell’11 febbraio, brilla la luce di Cristo e il popolo cristiano, magari a fatica, ma lo ha infine riconosciuto. E’ il gesto che avrebbe voluto compiere un altro grande Papa del passato, Gregorio Magno, al quale lo stesso Benedetto si è spesso rivolto spiritualmente, anche in modo esplicito: “Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi «servo dei servi». Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza”. La grandezza di Gregorio Magno è nell’umiltà del servizio, ed è questa anche l’umiltà di Benedetto, vicario di Cristo, che oggi è pontefice orante a fianco del pontefice governante che non smette di chiedere consiglio al “collega” più anziano. I nostri due Papi attuali non si preoccupano di “piacere”, come ha detto Benedetto: “se fossi piaciuto a tutti ci sarebbe stato qualcosa che non andava bene, neanche Gesù è piaciuto a tutti”.
Giovanni Paolo II
Umile non appariva tanto Karol Wojtyla, con la sua rocciosa fisicità e l’ardimento con cui si è gettato nel cuore della sua lunga “buona battaglia”. Sono tante le immagini potenti di quei 27 anni di pontificato. Me ne vengono in mente due, una istantanea, l’altra prolungata nel tempo. La prima ha una data precisa, il pomeriggio del 13 maggio 1981, quando per miracolo il Papa si salvò dall’attentato che per mano di un oscuro killer turco lo ferì mortalmente all’addome. In quel crollare insanguinato sulla vettura tutto il mondo ha riconosciuto in Papa Wojtyla il suo essere alter Christus in pieno, portando la croce fino alle estreme conseguenze. La seconda immagine è collegata alla prima, ed è quella del lungo martirio della sofferenza che negli ultimi anni di vita e di pontificato ha accompagnato il cammino di questo gladiatore di Dio. Proprio nella crisi della forza del Papa polacco, nel suo non nascondere la debolezza ma anzi nel mostrarla ad un mondo sordo che sempre di più tende a rimuovere la sofferenza e la morte, Giovanni Paolo II è stato segno di contraddizione e ha definitivamente colpito e conquistato i cuori del suo popolo, che in lui ha riconosciuto l’icona vivente del Christus patiens. L’immagine cristica è quindi quella del Cristo agonico, che nell’orto degli ulivi confida che la sua anima è “triste fino alla morte”, quel Cristo di cui ha parlato Pascal: “Cristo è in agonia, nell’orto degli ulivi, fino alla fine del mondo. Non bisogna lasciarlo solo in tutto questo tempo”.
Paolo VI
Dall’orto degli ulivi al Calvario. Con Papa Montini ci muoviamo dal giovedì al venerdì santo, l’ora delle tenebre. L’immagine che mi viene in mente di questo che è stato il “mio” Papa, essendo io nato all’indomani della fine del Concilio Vaticano II, si riferisce ad un altro 13 maggio, esattamente tre anni prima dell’attentato a Giovanni Paolo II, ed è quella di un uomo vecchio e malmesso, che con voce dolente, il 13 maggio 1978 si è rivolto a Dio con parole quasi di accusa, come un nuovo Giobbe piagato ma non piegato, che grida a Dio il proprio dolore per l’uccisione del suo caro amico Aldo Moro: “Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”. Montini è figura del Cristo degli amici, che piange per la morte di Lazzaro, è figura di Gesù figlio che grida al Padre sulla croce “Mio Dio, perchè mi hai abbandonato?”. Con lui si scende negli inferi, a lottare corpo a corpo con il Nemico, con il diavolo, una presenza inquietante che ha attraversato tutti i pontificati degli ultimi 50 anni ma che forse con Montini è emerso in modo più prepotente. Non a caso fu Paolo VI a ricordare la necessità di non negare l’esistenza del diavolo, a gridare l’allarme del fumo di Satana penetrato anche nel tempio, che si è trovato nella più totale solitudine soprattutto negli ultimi dieci anni di pontificato, da quel ’68 della Humanae Vitae al devastante ’78 dell’assassinio di Moro e, qualche giorno dopo, dell’approvazione della legge sull’aborto. «Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio – scriverà il giorno dopo la chiusura del Concilio – non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva».
Così descriveva il suo stato d’animo: «La mia posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in un’estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Dà le vertigini. Come una statua sopra una guglia, anzi una persona viva, quale io sono… Anche Gesù fu solo sulla Croce… Non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore che mi esoneri dal mio dovere. E soffrire solo… Io e Dio». Ecco Paolo VI, figura di Cristo, il Cristo crocifisso, il Cristo che va da solo nel deserto per affrontare le tentazioni del diavolo, un personaggio questo che troviamo in modo latente anche nelle vicende dei Papi successivi a Montini. Penso ai “lupi” di Ratzinger e ai tanti riferimenti che Papa Bergoglio ha già fatto a Satana nei suoi primi 6 mesi di pontificato. Il 28 settembre scorso, parlando alle guardie svizzere, Francesco ha ripreso il tono di Montini e dell’ultimo Benedetto XVI, quando ha affermato che «Nella rocca del Vaticano il male ha un passaggio attraverso il quale s’insinua per spargere il suo veleno: è la “chiacchiera”, quella che porta l’uno a parlare male dell’altro e distrugge l’unità. E dal contagio di questa “zizzania” nessuno è immune […] Napoleone se n’è andato e non torna più, non è facile che venga un esercito qui a prendere la città. La guerra oggi, almeno qui, si fa altrimenti: è la guerra del buio contro la luce; della notte contro il giorno».
Giovanni Paolo I
Dopo la notte di Montini, ecco la flebile alba di Luciani, il Papa breve e luminoso come il suo sorriso. Anche questo Papa è legato a Cristo per il cordone sicuro dell’umiltà, un tratto che non può non ricondurre a Gesù che quando si sbilancia e realizza un autoritratto si definisce “mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Albino Luciani aveva come motto episcopale una parola sola, “humilitas” e con questo si potrebbe chiudere la riflessione se non valesse la pena ricordare il commento autorevole di Benedetto XVI, altro Papa dell’umiltà: “Egli scelse come motto episcopale lo stesso di san Carlo Borromeo: Humilitas. Una sola parola che sintetizza l’essenziale della vita cristiana e indica l’indispensabile virtù di chi, nella Chiesa, è chiamato al servizio dell’autorità […] In Albino Luciani sorridere era parte e strumento della comunicazione e quindi della catechesi, nella quale era maestro, ma in Luciani oltre a ciò il sorriso era anche qualcosa d’altro. Lui, che aveva dimestichezza con i letterati, non ignorava François Rabelais – il cinquecentesco romanziere francese autore di Gargantua e Pantagruel – anche se mai gli indirizzò una delle sue lettere. Ebbene, Rabelais detestava coloro che non sorridono, anzi neppure ridono. Gli facevano paura, perché non dotati da madre natura di spirito e di umorismo. […] Umorismo e sorriso, dunque, come sapienza di vita; ottimismo come carità. Perfino la visibile amabilità di Albino Luciani era governata dal desiderio di sorreggere, incoraggiare, valorizzare i suoi interlocutori”.
Se questa del sorriso è l’immagine che resterà di Giovanni Paolo I, e se è vero che ciò che colpisce di un Papa è l’immagine sovraimpressa di Cristo, allora potrebbe sorgere un dubbio: ma Cristo ha poi mai sorriso? I Vangeli sembra non facciano cenno alle risate di Gesù. Qui entra in gioco l’elemento della gioia, che in modo diverso ma costante, ha accompagnato il cammino degli ultimi cinque pontefici, dalla Gaudete in Domino, esortazione apostolica di Paolo VI del maggio del ’75 fino all’insistenza con cui Benedetto XVI e poi Francesco hanno annunciato il cristianesimo come religione della gioia. La gioia sembra il dono che Cristo ha portato al cupo mondo del paganesimo ma, ancora, Cristo stesso era gioioso? Lascio la parola all’ultima pagina di uno dei libri più divertenti e decisivi del XX secolo, Ortodossia, scritto da Chesterton nel 1908, che da par suo ci regala la risposta giusta: “La gioia, che era la piccola esternazione del pagano, è il gigantesco segreto del cristiano. E mentre sono sul punto di chiudere questo caotico volume riapro lo strano libretto da cui deriva tutto il cristianesimo, e sono di nuovo tormentato da una specie di conferma. La tremenda figura che riempie i Vangeli sovrasta in questo aspetto, come in ogni altro, tutti i pensatori che hanno sempre creduto di essere più grandi. Il Suo pathos era naturale, quasi casuale. Gli stoici antichi e moderni erano orgogliosi di nascondere le proprie lacrime. Egli non nascondeva le proprie lacrime: le ha mostrate apertamente sul Suo viso aperto a qualunque visione quotidiana, come quella lontana della Sua città natale. Tuttavia, ha nascosto qualcosa. Solenni superuomini e diplomatici imperiali sono orgogliosi di reprimere la loro collera. Egli non ha mai trattenuto la Sua collera. Ha rovesciato le mercanzie dai gradini davanti al tempio e ha chiesto agli uomini come pensavano di poter evitare la dannazione dell’Inferno. Tuttavia, Egli ha represso qualcosa. Lo dico con rispetto: c’era in quella personalità dirompente un tratto quasi invisibile che potrebbe essere definito timidezza. C’era qualcosa che Egli nascondeva a tutti gli uomini quando saliva sul monte a pregare. C’era qualcosa che Egli occultava con un improvviso silenzio o con un impetuoso isolamento. C’era una cosa troppo grande perché Dio potesse mostrarcela quando è venuto sulla terra, e io qualche volta ho immaginato che fosse la Sua gioia”.