Il Papa è una montagna

2 Papi fuoriIl 2013 è stato l’anno dei due Papi. Anche il 2014 sarà l’anno dei due Papi e speriamo anche gli anni successivi. Due Papi al posto di uno, perchè Benedetto XVI l’11 febbraio non ha lasciato ma ha raddoppiato. A due Papi non ci siamo abituati, noi cattolici, figuriamoci gli altri. Da questa novità assoluta siamo ancora colpiti, disorientati. Il gesto epocale di Papa Ratzinger è stato forse troppo frettolosamente archiviato, in un primo momento a causa della sua incandescenza e poi a causa dell’avvento nel mondo, dalla fine del mondo, del vulcanico pontificato di Papa Bergoglio. Così quando si parla dei due Papi ci si attarda sul tema della “continuità/discontinuità”, come se possa esistere una continuità tra i Papi. Sono ragionamenti spontanei, spesso innocenti, che si fanno automaticamente perchè gli uomini hanno bisogno di comparare, accostare, distinguere, classificare. E tra gli esseri umani spiccano i giornalisti che tutto questo lo fanno per mestiere. E così riducono un po’ tutto quello che trattano, lo livellano, lo appiattiscono. Essi vivono solo in orizzontale. E invece qui si sta parlando di altezze, di grandi altezze. “A grandi altezze cresce Dio/ chi prega deve scalare orizzonti” canta Emily Dickinson e subito si pensa a Joseph Ratzinger che è salito sul monte, rimanendo “nascosto al mondo”, un monte che ha la forma della piccola collinetta nei giardini vaticani su cui raggiungere Dio sulla via della preghiera, quella via che gli ha permesso di scalare orizzonti. Noi siamo rimasti sotto, a fabbricarci quotidianamente nuovi vitelli d’oro che ci impediscono di andare oltre il nostro di orizzonte e siamo così indaffarati che l’assenza-presenza del piccolo Papa tedesco ci inquieta. La sua trasparenza, intesa come presenza invisibile, turba un mondo che ha fatto un nuovo idolo proprio della trasparenza (ma qui intesa invece come diritto e potere dello sguardo indiscreto, indagatore e denunciante). emily-dickinson-001Così come ci turba l’umiltà di questo Papa che richiama alla nostra memoria un altro verso della Dickinson: “Non conosciamo mai la nostra altezza/ finché non siamo chiamati ad alzarci. / E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura”. E’ stato fedele al suo compito Benedetto XVI? Su questa domanda si è divisa l’opinione e forse si divideranno anche i posteri anche se si può già dire che più ci si allontana dal gesto dell’11 febbraio 2013, più si riesce a coglierne la portata e, appunto, l’altezza, che sembra arrivare al cielo. Un piccolo Papa rivoluzionario e scomodo, e forse il mondo tirerà un sospiro di sollievo quando Benedetto varcherà l’estremo confine, perchè niente è più presente di un assente. E quindi per ora ci gingilliamo a riflettere, contrapporre, aggiustare e poi limare tutte le linee di maggiore o minore continuità tra il bavarese e l’argentino, un falso problema, perchè dimentichiamo chi è il Papa. Il Papa è una montagna. Il ponte che lui è chiamato ad erigere, come Sommo Pontefice, non è in orizzontale ma in verticale, tra gli uomini e Dio. Sulla montagna, che lui stesso è, il Papa ci invita a salire, mostrando a tutti i propri sentieri, i punti di accesso e di salita, e poi il salto finale lo lascia fare a noi (mentre lui pensa al proprio salto quotidiano, se ci riesce). Una montagna sta, non deve far altro, è unica, irripetibile, solitaria e non è paragonabile a nulla, nemmeno ad un’altra montagna.

dolomiti3Quando penso ai Papi, alla loro successione, penso a una catena montuosa. Una montagna dopo l’altra senza toccarsi, rispettandosi, la catena si diffonde nello spazio con una direzione che non è quella orizzontale ma verticale, come colgono i bambini quando disegnano le montagne, con la geniale semplicità dei bambini, come tanti triangoli. Non hanno punti di contatto le montagne ma una segue l’altra (altrimenti non è una catena) e tutte (questo è il “contatto”, la “continuità”) puntano verso l’altro. “Tutto ciò che sorge deve convergere”, le parole di Teilhard de Chardin (poi diventate il titolo di un racconto di Flannery O’Connor e di una canzone di Nick Cave) calzano perfettamente a descrivere in modo orografico la storia della chiesa, con i vertici sublimi, le vette più impegnative, e tutti i rilievi del popolo di Dio, composto da quella “classe media della santità” di Joseph Malègue tanto cara a Papa Francesco. Perchè di santità si sta parlando. Le categorie mondane non servono, qui si deve cambiare passo. Applicarle, quelle categorie, vuol dire ridurre e uniformare una “materia” che invece non si può manipolare: “L’uniformità è più diffusa tra gli uomini “naturali” che tra chi si arrende a Cristo. Come sono stati monotonamente simili tutti i grandi tiranni e conquistatori! E come sono gloriosamente diversi i santi!” esclamava C.S.Lewis alla fine delle sue riflessioni sulla differenza cristiana negli anni ’40 e coglieva, come al solito, nel segno.
La “continuità” tra i Papi non è quindi tra di loro ma è tra loro e Cristo, a cui si sono arresi. La domanda quindi non è se Bergoglio assomiglia più o meno a Ratzinger ma se Bergoglio (o Ratzinger, o Wojtyla o Luciani…) assomiglia a Cristo, se ce lo ricorda, se nel suo ri-presentare Cristo riesce ad essere via d’accesso, aiuto nella salita, montagna che diventa ponte. Qui entra in campo la fantasia di Dio, l’infinita fantasia di Dio, che gli uomini cercano sempre di limitare, catalogare, gestire, dimenticando l’avvertimento del cardinale Ratzinger (ma potrebbe essere benissimo Bergoglio): “Quante strade ci sono per arrivare a Dio? Tante quante sono gli uomini”. Montagne, tutte diverse, che si innalzano, tutte, verso il cielo. Come fratelli, tutti diversi tra loro, ma tutti simili al padre comune.
libertyFraternità è allora la parola chiave, questa che è stata la grande idea trascurata delle tre inneggiate dai rivoluzionari francesi, l’unica che avrebbe mitigato gli estremi (in cui siamo tutti caduti) delle altre due, quell’eguaglianza e quella libertà che assolutizzate e sganciate dal “calmiere” della fraternità hanno condotto la società occidentale al punto in cui si trova oggi. Parola scomoda, fraternità, perchè, lo ha ricordato Francesco nel messaggio del 1 gennaio 2014 per la giornata mondiale della pace, “una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente“, quel Padre che è innanzitutto di tutti, “nostro”, come osservava a suo tempo Benedetto XVI: «Quando spiegano il Padre nostro, i teologi moderni di solito si limitano ad analizzare il termine “Padre”. Questo corrisponde esattamente alla nostra coscienza religiosa odierna. Invece un teologo come Cipriano ritenne giusto esaminare nel dettaglio anche l’aggettivo “nostro”. In effetti questo riveste una grande importanza. Uno solo, infatti, ha il diritto di dire a Dio “Padre mio” e cioè Gesù Cristo, il Figlio unigenito. Tutti gli altri uomini in fondo devono dire “Padre nostro”. Dio è per noi Padre solo e sempre in quanto siamo parte della comunità dei suoi figli. Per “me” egli diventa Padre solo e sempre perchè faccio parte del “Noi” dei suoi figli».
Ratzinger fratelliC’è una grande fame di paternità, oggi, nel mondo occidentale che appare una società di orfani, ma a questa fame non corrisponde un’analogo desiderio di fraternità. In effetti appare più facile richiedere l’affetto di un padre che condividere quell’affetto con un fratello, come ci ricorda spietatamente la figura del fratello maggiore della parabola del figliol prodigo. Ed è questo il punto da cui è partito, con la naturalezza che lo contraddistingue, il magistero di Papa Francesco: una riscoperta della centralità della fraternità che può avvenire solo dopo e grazie ad un surplus di misericordia. Si può scalare la montagna ma innanzitutto riconoscendo la propria piccolezza, la propria bassezza (altro che “abolizione del peccato”). Per salire, paradossalmente, ci si deve inginocchiare. Papa Ratzinger, citando il geniale gesuita Urs Von Balthasar predicava la necessità di una “teologia in ginocchio”, ora tocca a lui, al Papa argentino, alzarsi in piedi, anche lui è stato chiamato e anche lui ci indica, nel suo modo originalissimo, che l’unico modo per farlo è quello di mettersi in ginocchio e accogliere lo sguardo misericordioso che scende dall’alto, quello sguardo verso cui tutti i cristiani, Papi compresi, tendono.

4 commenti a “Il Papa è una montagna

  1. Grazie, perché qualcuno sa mettere il giusto equilibrio. Non se ne può più di giornalisti sguinzagliati a remare contro. Bravo l’autore dell’articolo, chiedo di sapere se si tratti di Andrea Monda…
    Grazie, grazie davvero! condivido su fb e twitter.
    P.S.: IL PAPA E’ UNA MONTAGNA!

  2. E’ un articolo interessante anzi prezioso, anche se stento a condividere qualche interpretazione teologica. Secondo me, per esempio, l’affermazione che solo Gesù “ha il diritto di dire a Dio “Padre mio” perché è “il Figlio unigenito”. Tutti gli altri uomini in fondo devono dire “Padre nostro”, è spregiudicata e priva di fondamento. Noi, e Gesù ce lo fa capire molto chiaramente, se facciamo la volontà del Padre, siamo Suoi fratelli, Sue sorelle, Sua Madre e, sentite sentite, ci invita ad invocare il Padre quale nostro “Abbà”. Quindi come figli che hanno la possibilità di vivere in intima comunione con Lui. L’altro elemento interpretativo che lascerei silente è l’espressione che indica il Vicario di Cristo visibile, in questo caso Papa Francesco come “una montagna”. La montagna che ogni cristiano è invitato a salire è “la santità”. Papa Francesco, come tutti i suoi precedessori, hanno il compito di fornirci suggerimenti evangelici illuminanti, indicarci i sacramenti come mezzi di salvezza, ecc. ecc.. Ma la montagna che noi dobbiamo salire è, ripeto, “la santità, è la beatitudine, è “Cristo Gesù”. Non è Lui la Via, la Verità e la Vita? Mi piacerebbe continuare a chiarire qualche altro elemento, ma mi fermo qui, per il rispetto che devo per tutto il resto dell’articolo per cui faccio le mie congratulazioni.

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