Riflessione della settimana 11/18 novembre

Dopo una settimana saltata, arieccomi a ri-flettere, pensando a queste due settimane passate e a quella che mi si apre davanti in questa domenica piovosa di Roma. Mi frulla in testa questa frase qua: “La Chiesa porta con sé più verità di quanto possa ciascuno di noi nella sua minuscola individualità dunque ha il diritto che noi ci pieghiamo davanti a lei in certe cose” che è di Teilhard de Chardin il celebre e discusso teologo gesuita che è stato oggetto di un convegno all’Università Gregoriana. L’amico Francesco Agnoli sul Foglio ha “stroncato” la figura del teologo francese ricordando i suoi problemi con la Santa Sede e citando alcune sue affermazioni che in effetti colpiscono, soprattutto se lette così, al di fuori della necessaria contestualizzazione. La frase che invece è rimbalzata fuori dal convegno in Gregoriana mi colpisce e mi piace davvero tanto, è il segno di una grande umiltà ed è una cosa che credo pure fermamente. E’ importante che noi ogni tanto impariamo a “piegarci”, direi “inchinarsi”, “inginocchiarci”. Paul Claudel, il grande poeta francese, verso la fine della sua lunga vita, ripeteva: “le mie gambe non mi possono condurre ormai quasi da nessuna parte, ma possono ancora piegarsi per farmi inginocchiare, e questo mi basta”. E come non ricordare anche il buon vecchio Gilbert che ne “L’uomo eterno” scriveva: “L’uomo ha sempre trovato naturale adorare qualche cosa, anche le cose innaturali. La posizione dell’idolo può essere dura e strana, ma il gesto dell’adoratore è sempre generoso e bello. Egli si sente più libero quando è legato, si sente più alto quando si inchina. Tutto ciò che gli vieta il gesto dell’adorazione lo avvilisce e lo mutila per sempre. L’anticlericlarismo è una schiavitù è un’inibizione se non può pregare è come imbarazzato se non può inginocchiarsi è come in ceppi.” 

Ma un’altra cosa che mi piace nella frase di Teilhard è il senso della “carità ecclesiale”, dell’amore per la chiesa e per chi ne fa parte, senza astio o faziosità.  E quanto invece mi dispiace vedere che, sin dai tempi di San Paolo fino ad oggi, i cristiani si litigano invece proprio come dei “fan” di Cristo e facendo a gara a chi possiede più “cimeli, brandelli, reliquie”  del proprio idolo. In un’altra discussione, in famiglia, una mia parente ha avuto parole molto dure con CL, il movimento fondato da Don Luigi Giussani.  Le divisioni tra il popolo dei cristiani sono sempre esistite eppure sono per me fonte di grande sofferenza. Lo spirito settario e fazioso è duro a purificarsi nel cuore degli uomini e anche dei cristiani. Mi ricollego quindi alla riflessione che ho scritto oggi sul Diario di scuola/6: non è che anche i credenti rischiano di diventare dei “fanatici”?

Riflessione della settimana 29 ottobre/4 novembre

Settimana dominata dalla questione delle 6 ore lavorative settimanali in più proposte dal governo Monti, e poi rimangiate. La scuola in subbuglio, i prof sul piede di guerra. La cosa triste è stata aver coinvolto i ragazzi. Puzza di strumentalizzazione molto intensa. Ma ne ho già parlato nel precedente post di stamattina sul nuovo/vecchio autunno caldo della scuola. Cambiamo quindi discorso. Lo faccio con un aneddoto/leggenda riferito a san Gerolamo che dice così: “Un giorno il Signore apparve a San Girolamo e gli disse: “Girolamo, vorrei la cosa a cui tieni di più”. Allora Girolamo rispose: “Signore, ti darò tutti i miei scritti”. Ma il Signore rispose: “Non mi basta”. “Ti darò la mia vita di sacrifici e mortificazioni”, replicò, ma ancora una volta il Signore rispose: “Non mi basta, Girolamo”. “Cos’altro mi rimane da darti, Signore?”, si spazientì Girolamo. “Allora il Signore gli disse: “Girolamo, dammi i tuoi peccati!”

L’ho trovato in un libretto di Mons.Fulton Sheen (“Le ultime sette parole“, San Paolo) e mi ha colpito. Noi teniamo ai nostri peccati. Non ce ne distacchiamo, un po’ come Linus dalla sua coperta. Ci siamo abituati, ci siamo affezionati, ci sentiamo protetti, confortati dai nostri peccati. Terribile, no? Eppure (e devo a Papa Benedetto questa riflessione) il peccato porta nella vita dell’uomo solo noia, grigiore, squallore, freddo.. mentre la gioia è portata dall’irruzione nella nostra vita di un Altro, uno che ci salva. La gioia.. L’adesione al Vangelo si gioca sul binomio noia/gioia piuttosto che su vero/falso o giusto/sbagliato, mi sa. Il tema della gioia in fondo era il fuoco coperto dalla cenere che covava sotto le righe dell’articolo che ho scritto sulla scuola, spero che qualcuno lo comprenderà, perchè se l’educazione non conduce alla gioia che educazione è?  Ma può condurvi soltanto se nasce dalla gioia.

Riflessione della settimana 21/28 ottobre

Riprendo il tema dell’Officina di BombaCarta di ieri, 20 ottobre: autorità e libertà. Le due cose sono viste spesso in contrapposizione. E la libertà spesso gode delle simpatie così come l’autorità invece suscita profonde antipatie. So che passerò per un vecchio conservatore ma a me l’autorità è simpatica. E mi è simpatica perchè l’associo al tema della responsabilità, questa parola così invocata e temuta che però fa proprio da ponte tra le due, tra la libertà e l’autorità c’è un terreno comune, un nesso che deve restare integro e anzi espandersi tenendo insieme e in tenzione le due dinamiche altrimenti opposte e questo nesso è proprio la responsabilità. Senza di essa la libertà e l’autorità diventano arbitrio e capriccio, delirio di onnipotenza.

L’autorità mi è quindi simpatica perchè associo queste categorie di persone che rivestono ruoli di autorità (dal genitore al professore, dal politico al prete) al fatto che queste persone si sono assunti una responsabilità, si sono esposti alla critica ed alla contestazione (che puntualmente emergono, nessuna autorità riesca a fare felici tutti). Sulla libertà che dire? In questa settimana, un po’ dura per me (avete visto che non ho tenuto il passo del “diario di scuola”) mi vengono in mente due aforismi che trovo molto stimolanti: quello di Nicolas Gomez Davila per cui  “La libertà non è un fine, è un mezzo. Chi la scambia per un fine, quando la ottiene, non sa che farsene” e quello di George Orwell: “Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente cose che non vogliono sentire“. Insomma, se l’autorità è “popolare” c’è qualcosa che non va.

Riflessione della settimana (14-21 ottobre 2012)

“Mio zio Alex […] mi insegnò una cosa molto importante. Disse che quando le cose vanno davvero bene dovremmo fare in modo di accorgercene. Non parlava di grandi trionfi bensì di semplici epifanie: bere una limonata all’ombra in un pomeriggio afoso, sentire il profumo di una panetteria vicina, pescare e fregarsene se si pesca qualcosa o no, ascoltare qualcuno che suona bene il piano nell’appartamento accanto al nostro. Zio Alex mi suggeriva, in tali occasioni, di dire a voce alta: “Se non è bello questo, cosa mai lo è?”
(da “Cronosisma” di Kurt Vonnegut)

Mi sa che questa volta non devo aggiungere altro. Ah sì, forse la frase di San Gregorio di Nissa: “solo lo stupore conosce”.

Joe Frazier, il pugile

(il 7 novembre 2011 moriva Joe Frazier, ex-campione mondiale dei pesi massimi; questo è il mio ricordo apparso il giorno dopo su Il Foglio).

Joe Frazier è morto ieri a 67 anni, fulminato in poche settimane da un tumore al fegato. Dodicesimo di 13 figli di Robin Frazier, nato a Beaufort nella Carolina del Sud, da ragazzo Joe è apprendista macellaio a Philadelphia prima di cominciare la carriera pugilistica: 37 incontri, 32 vittorie (27 per ko), 1 pareggio e 4 sconfitte. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokio nel ’64 (finale giocata con una mano rotta, poi subito ingessata), nel 1968 diventa campione dei pesi massimi, titolo che l’anno prima era stato tolto a Muhammad Alì per la sua renitenza alla leva. Di tutta la sontuosa lista di successi, restano però più memorabili le quattro sconfitte, per mano di Alì e di George Foreman: perchè Joe Frazier è un grande sconfitto, un gigantesco, struggente, “numero due”. Che però ha vissuto la sua notte di gloria: la sera dell’8 marzo 1971 nel Madison Square Garden in 15 riprese sconfisse ai punti Alì, il suo rivale di sempre. Grazie al suo infinito carisma quest’ultimo era riuscito, a livello psicologico e mass-mediatico, ad invertire i ruoli dello scontro: anche se di fatto egli era lo sfidante, colui che inseguiva il titolo che gli era stato tolto senza alcuna sconfitta sul ring quattro anni prima, alla fine dei conti risultava che era Frazier a inseguire, a cercare di legittimarsi sconfiggendo la fama e poi la persona che gli stava davanti, sempre avanti.

Alì e Frazier, come Mozart e Salieri, come Kennedy e Nixon, il Bello e la Bestia. Come aveva fatto con Liston sette anni prima, Alì, con i suoi show da rapper ante litteram (show paradossalmente ai limiti del razzismo, sia con Liston che con Frazier), aveva cominciato a combattere il match già da settimane prima della data fissata, aggredendo verbalmente il “brutto negro” Joe Frazier, bieco usurpatore del titolo che spettava di diritto a lui, l’ottava meraviglia del mondo. E quella sera tutto il mondo era lì al Madison Square Garden: Ted Kennedy e Aretha Franklin, Bing Crosby e Frank Sinatra, e Burt Lancaster che commentando per una rete televisiva ad un certo punto esclamò: “Frazier non è pugile, ma un carroarmato Sherman!”. Questo era lo stile, privo di stile, di Joe Frazier: avanzare. Prendere i pugni dell’avversario, anche tanti pugni, ma riuscire a sferrarne uno, uno di quei sinistri devastanti che “sembravano provenire dal pavimento” come ebbe a dire Alì che al quindicesimo round conobbe l’umiliazione dell’essere contato, anche se per soli quattro secondi. Due anni dopo in Jamaica Frazier fu a sua volta umiliato per sei volte dal tornado-Foreman che in due brutalissimi round conquistò il titolo che poi perderà nell’incontro più celebre e incredibile della boxe, quello di Kinshasa del ’74 con Alì (ko all’ottavo round). Un po’ come nella vita, le cose si combinano non perfettamente ma misteriosamente: Frazier aveva battuto Alì ma aveva perso da Foreman, mentre Alì avrebbe battuto Foreman in una performance unica e irripetibile.

Invece tra Alì e Frazier nacque un vero e proprio lungo rapporto di rivalità-amicizia (accennato efficacemente dal film Alì, di Michael Mann), di stima e contrapposizione profonda, un dualismo fuori e dentro il ring che alimentava il mito dell’epica della boxe. “Io senza di lui non potrei essere quello che sono e viceversa” dirà poi Alì, “insieme abbiamo fatto una bella squadra”.

I tre incontri della “squadra Alì-Frazier” sono rimasti nella storia della noble art che forse proprio il 30 settembre del 1975, nelle Filippine, ha conosciuto il suo canto del cigno. Il terzo, durissimo e ultimo match si tenne infatti a Manila (“the Thrilla in Manila”, secondo le filastrocche di Alì che avrebbe dovuto “to beat the Gorilla”) e finì con l’abbandono di Frazier all’inizio dell’ultimo round. Furono i suoi secondi a gettare la spugna perchè Joe non l’avrebbe mai fatto: “Frazier è capace, se lo butti giù, di rimettersi in piedi prima ancora di toccare terra” pensava con atroce timore Alì mentre cercava di sferrare il colpo del ko a Foreman chiedendosi: “e se George fosse simile a Joe?”.

Ma Joe era unico; egli era da un certo punto di vista, il vero pugile. Con la sua incredibile arte di incassatore e la tenace e commovente furia che lo spingeva a procedere sempre in avanti, noncurante dei sacrifici da pagare pur di mantenere questa tattica semplice quanto ostinata, Frazier ha incarnato l’idea platonica del pugile molto più dei suoi vincitori. Frazier è molto “più pugile” di Alì, perchè Alì appartiene ad un’altra sfera, quella del genio, dell’arte, della bellezza, ma è Smokin’ Joe Frazier (dai pugni fumanti) ad appartenere alla boxe, a quello sport che come ebbe a dire George Foreman, è “lo sport verso cui tutti gli altri tendono”.