Domenica non festiva

Ho telefonato l’altro giorno al laboratorio medico Bios, uno dei più qualificati e frequentati di Roma per prenotare un’ecografia epatica (fegato gonfio e pieno di calcoli). Mi ha risposto la voce suadente anche se un po’ metallica della segreteria telefonica che mi avvisava degli orari del laboratorio e tra l’alto diceva che: “Bios è aperto anche tutte le domeniche tranne che ad agosto e alle domeniche che coincidono con le festività”. Ho cercato di capire cosa volesse dire, chiedendomi: “ma la domenica non è già una festività?”. Evidentemente no. Ho quindi percepito in modo tangibile il senso della secolarizzazione della nostra società. Uno dei segni evidenti del processo di laicizzazione è la perdita del senso della festa. Diversi anni fa un sondaggio poneva un bizzarro interrogativo ai giovani: “quale è il comandamento che ha perso più valore oggi?” e, con mio grande sgomento il risultato del sondaggio fu il terzo comandamento, “ricordati di santificare le feste”. Terribile, no? Mi viene in mente il finale di “Otto e mezzo” in cui Mastroianni confida a se stesso, alla moglie, al mondo che “la vita è una festa, viviamola insieme”. Ho nostalgia di Fellini.

Fuggire la noia

E’ un po’ di tempo che ci penso. Ma che vuol dire “fuggire la noia”? La noia, in effetti, noi uomini tendiamo a fuggirla. Ma siamo sicuri che è la cosa migliore da fare? Ho sempre di più la sensazione che la noia sia come un cane ringhioso, se lo fuggi t’insegue. Insomma, sto cercando di mettere a fuoco il fatto che la noia non è monolitica nella sua negatività, ma ha una serie di sfumature imprevedibili e di ambiguità ricche di speranza. Del resto Leopardi nel suo Canto notturno del pastore errante dell’Asia insiste sul fatto che il tedio è proprio ciò che differenzia ogni uomo dagli animali, dalla capra, essere più sfortunato dell’uomo proprio perché non conosce il mortale (e quindi vitale) abisso della noia.

Non so come e perché ma tempo fa, in classe, dissi all’improvviso ai miei studenti: “vi auguro lunghi pomeriggi di noia!”. Non so come mi venne in bocca quell’augurio, ma lo rivolsi ai ragazzi, adolescenti, già “programmati” per annoiarsi in classe e poi di fronte ai compiti da fare a casa. Non so se apprezzarono molto il mio augurio, rimasero un po’ in silenzio, sperando che prima o poi avrei detto qualcosa, cercando di spiegare lo strano augurio appena pronunciato. Non dissi molto. Parlai di provare ad “attraversare” la noia, di cercare di “assaporarla”… strano vero? La noia è proprio (o scaturisce da) quella mancanza di sapore, di gusto che una volta si chiamava “accidia”. Però forse è proprio qui il punto: se hai un momento di accidia, di aridità, di “insipideria”, forse è il caso che ti concentri su di esso invece di distrarti sperando che “facendo” qualcos’altro sparisca.

Mi viene in soccorso un brano di Chesterton tratto dal saggio Eretici: “Non esiste, sulla terra, qualcosa che costituisca un argomento poco interessante; l’unica cosa che può esistere è una persona poco interessata […] Senza dubbio, noi potremmo trovare una seccatura contare tutti i fili d’erba o tutte le foglie degli alberi; ma la circostanza dipenderebbe, non dalla nostra baldanza o gaiezza, ma dalla nostra scarsa baldanza e gaiezza. Il noioso procederebbe, baldanzoso e gaio, e troverebbe i fili d’erba splendidi come le spade di un esercito. Il noioso è più forte, è più gioioso di noi; egli è un semidio, anzi è un dio. Perché sono gli dei che non si stancano dell’iterazione delle cose; per loro, il calar del sole è sempre nuovo, e l’ultima rosa è rossa come la prima”.

Questo brano mi fa venire in mente un film straordinario, un “monumento” sul tema dell’ambiguità della noia: Ricomincio da capo di Harold Ramis con Bill Murray in cui il protagonista si trova costretto (dal destino? da Dio?) a rivivere ogni giorno la stessa giornata che, tra l’altro, la prima volta che l’aveva vissuta, era stata una giornata noiosissima. Eppure, rivivendola con quella “divina iterazione” di cui parla Chesterton, alla fine il protagonista la vivrà pienamente, gioiosamente, ricevendo e dando la gioia e l’amore a sé e a tutti quelli che ha intorno. In fondo anche nelle nostre vite le giornate si assomigliano e si ripetono continuamente. Questo divertente e profondissimo film ci dice una cosa, che la vita è un enigma, cioè il luogo dell’ambiguità, della libertà. L’enigma, con la sua presenza di ombra (male, smacco, noia…) all’inizio può lasciarci sgomenti e spaventati (da qui la tentazione di fuggire), però non vuole fughe, e nemmeno soluzioni (che sarebbero un’altra forma di fuga), ma solo di essere attraversato. [E qui si aprirebbe una discussione gigantesca, basti pensare alla differenza tra la figura di Edipo, che prova a cercare la soluzione dell’enigma, e quella di Cristo che prega per la sua vita il giovedì sera e il giorno dopo attraversa fino in fondo la sua Via Crucis, ma su questo e altro mi permetto di rinviare ad un libretto che uscirà in autunno, scritto a quattro mani dal sottoscritto e da padre Giovanni Cucci.]

Infine: ho parlato della noia come di un “cane ringhioso” e questo mi ha fatto venire in mente il brano della Genesi, quando Dio coglie l’ombra nel volto di Caino, geloso contro Abele, e gli chiede: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo”. Questo essere “accovacciato alla porta” dell’istinto malvagio che nasce dall’irritazione e dalla tristezza non può non far pensare ad un cane ringhioso; anche qui, non ci viene chiesto di fuggirlo o di spiegarcelo ma di affrontarlo e dominarlo. Quando studiai un po’ di esegesi all’Università Gregoriana mi fu spiegato che in quel termine, dominare, era racchiusa anche una radice che aveva come significato quello di “raccontare, parlare”, come una sorta di “logo-terapia” consigliata a Caino per “rielaborare” l’istinto violento. Ancora una volta quindi, sembra che non sia consigliabile fuggire seguendo l’istinto della paura, né razionalizzare con astratte soluzioni, ma attraversare fino in fondo il male che ci si è presentato di fronte. Parlare, raccontare, in questo camminare attraverso, “nel mezzo”, può essere di grande aiuto. Cristo, il Logos che è venuto “in mezzo” a noi, è il nostro logo-terapeuta, non a caso il Vangelo non è un libro che ci spiega tante cose ma che ci dona tanti racconti; non a caso Gesù non è fuggito di fronte al male (pur avendo l’istinto di farlo), ma ha bevuto il calice fino alla feccia.

 (questo articolo è apparso il 17 agosto 2010 sul blog www.bombacarta.com)

La bella morte di Benito (Jac)

La cosa più bella dell’opera di Benito Jacovitti era la sua completa assenza di intenti didattici o moralistici. Anche lui come Tolkien poteva tranquillamente affermare “io non predico, né insegno”. Eppure c’è un piccola grande lezione che traspare non dall’opera di Jac né dalla sua vita, ma dalla sua morte avvenuta dieci anni fa, il 3 dicembre 1997, e mi riferisco al modo con cui si è spenta la sua allegra e spensierata esistenza, un modo che ha lasciato ai suoi lettori un ultimo messaggio, forse un po’ più serioso delle sue colorate vignette, o comunque un’occasione su cui riflettere. Il grande fumettista infatti morì a 74 anni, tra le braccia della moglie Floriana, di due anni più giovane, la quale, a poche ore di distanza dal marito, ha preferito seguirlo nel suo ultimo e più avventuroso viaggio.

La morte, “l’ultimo nemico” secondo san Paolo, è oggi rimasto l’ultimo tabù: per l’uomo contemporaneo che ha raggiunto un livello di vita fisica (sia come qualità che come durata) impensabile per le generazioni che lo hanno preceduto, l’avvenimento della morte è qualcosa di tragico e sconvolgente in quanto ricorda ciò che si è preferito dimenticare, rimuovere, esorcizzare e cioè la propria finitezza e, soprattutto, la propria solitudine, sentimento che da sempre accompagna il momento della morte. Proprio per questo motivo, episodi come questo della morte di Jacovitti e della moglie, pur riproponendo all’uomo di oggi l’atavica paura della fine della vita, portano con sé anche un che di consolatorio, una cifra di calore e di speranza. Perché se è vero che l’uomo ha raggiunto il livello più alto nella lotta alle malattie ed alle sofferenze fisiche (da qui la tentazione di cancellare dal proprio orizzonte il fatto certo, ineluttabile, della fine terrena), è purtroppo altrettanto vero che la società contemporanea si contraddistingue come «società di soli», una realtà in cui la solitudine, l’isolamento tra le persone, regnano incontrastati. Si vive da soli. Viviamo nella società dei mass-media e del villaggio globale, eppure mai questa condizione d’isolamento era stata così pesantemente avvertita da ogni singolo essere umano. Si vive e (quindi) si muore da soli. Ineluttabilmente, la morte, la malattia, il dolore, si rivelano come implacabili isolanti, che lasciano il morente, il malato, da solo nella sua estrema lotta. Oggi, inoltre, la «medicalizzazione» della morte, il relegare questo evento umano nell’asettica sfera delle strutture ospedaliere, contribuisce ancora di più a privare il momento della morte di ogni residua traccia di umanità che pur dovrebbe avere. Ma forse non è stato sempre così e così potrebbe anche non essere.

La morte “congiunta” di Benito e Floriana ci rimandano con la memoria ad altri episodi, per lo più letterari, in cui l’uomo è riuscito ad imbrigliare ed imbrogliare la morte, trovando il modo per vivere questo momento da protagonista e non da vittima solitaria e disperata. Ritornano alla mente, da un passato arcaico, sepolto ma sempre vivo anche nelle fibre dell’uomo contemporaneo, le figure dei patriarchi biblici che muoiono nell’abbraccio benedicente di tutta la famiglia. Morire insieme, poi, per due persone che si amano, è un sogno romantico che tutte le coppie si promettono e, in alcuni casi, realizzano. E’ quello che accade a Filemone e Bauci, come racconta Ovidio nelle «Metamorfosi»: i due vecchietti che «riconoscendo la loro miseria e soffrendola in pace l’alleggerirono», dimostrandosi generosi con il prossimo, verranno premiati da Giove che esaudirà il loro unico desiderio, appunto quello di morire insieme, trasformandoli in due rami dello stesso albero. Questo mito classico, amato da molti autori successivi (Tolstoj lo riprenderà nel suo «Padre Sergio» – riproposto cinematograficamente ne «Il sole anche di notte» dei fratelli Taviani -), esprime un ideale agognato, più o meno consapevolmente, da ogni essere umano.

In tanti altri casi, sia nella letteratura che nella realtà (chi ha vissuto l’esperienza di assistere persone anziane nel momento della morte, lo avrà certamente osservato), l’uomo riesce a non subire la morte ma, accettandola, finisce quasi per controllarla, incanalarla, scegliendo il momento in cui cedere definitivamente, in cui dire, insieme al vecchio Simeone del vangelo di Luca: «Nunc dimittis Domine», «Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace».

C’è un modo, allora, per attraversare da vincitori la morte (e i suoi perfidi alleati, la paura e la solitudine), ed è quello indicato dai classici e dalla Bibbia: innanzitutto accentando appunto di attraversarla, poi riconoscendo la propria miseria (come Filemone e Bauci) e la propria finitezza di creatura che vive la condizione della speranza nell’esercizio della solidarietà e della pietà (come Simeone). La morte è pur sempre un momento della vita e se si ri-impara a vivere, si riesce anche a saper morire. Non viviamo da soli in questo mondo, e, se vogliamo, non moriamo da soli: questa l’ultima lezione dell’allegro “maestro” Jacovitti, forse la più alta della sua mirabolante vita.

(il presente articolo è apparso su Il Foglio il 15 settembre 2007)