Giobbe e la scommessa di Dio

giobbe«Se ancora ci resta qualche cosa di quella originaria semplicità, se poeti e filosofi possono in un certo senso pronunciare una preghiera universale, se viviamo sotto un cielo largo e sereno che paternamente si stenda su tutti i popoli della terra, tutto ciò lo dobbiamo soprattutto (umanamente parlando) a un popolo nomade, irrequieto e segreto, che conferì agli uomini la suprema e serena benedizione di un Dio geloso […] essi ebbero una delle pietre angolari del mondo: il Libro di Giobbe. Il quale vittoriosamente si erge di contro all’Iliade e alle tragedie greche: più ancora di quelle esso fu il punto di incontro e di rottura della poesia e della filosofia nel mattino del mondo».
Mi emoziona sempre leggere queste parole tratte da L’uomo eterno di Chesterton, ma la scorsa settimana l’emozione si è colorata di delusione quando ho chiesto notizie di Giobbe ai miei studenti: mai sentito. Quel libro, quella «pietra angolare del mondo», era stata del tutto scartata da miei alunni, perduta nell’oblio. Martina alza la mano, forse qualcosa sa, ma finisce per peggiorare la situazione: «Giobbe, che ha sposato Rachele?». «No, quello è Giacobbe… ma davvero non avete mai sentito parlare di Giobbe e della sua proverbiale pazienza?». Niente da fare.
Mi viene in mente la mia vecchia zia Gilda, classe 1911, che ripeteva «eh, che pazienza che ci vuole, la pazienza di Giobbe!». Uno sfogo riferito anche a me, uno dei tanti nipoti che questa pia e saggia zitella aveva cresciuto con dedizione tenace e appunto infinita pazienza. Penso a lei e guardo i miei studenti: «Ma che fine hanno fatto le zie, le nonne?». Non c’è tempo però per pensieri malinconici, ho solo un’ora per presentargli uno dei libri più importanti e gravidi di effetti della letteratura mondiale e così mi metto al lavoro e gli racconto la storia dell’uomo di Uz.
Non ho ancora finito di narrare il prologo in cielo, il patto tra Dio e Satana sulla fedeltà di Giobbe che Lavinia interviene con irruenza: «Ma che religione è che ammette una cosa simile? Una scommessa sulla pelle degli uomini, ma è assurdo!». Cerco di spiegargli che quel prologo, scritto e aggiunto dopo al resto del libro, è un escamotage narrativo di grande fascino, capace di catturare l’attenzione e costringere il lettore all’esercizio del paradosso, palestra necessaria per entrare nel testo di Giobbe e di tutta la Bibbia. «E il senso è proprio quello della scommessa», riprendo, «perché il punto è appunto questo: Dio è pronto a scommettere sull’uomo, mentre Satana lo invita a diffidare, e anche gli uomini non se la sentono di scommettere su di loro. E voi che dite? Gli uomini sono buoni? C’è ancora del buono nell’umanità?». La campanella interrompe il dialogo, mentre siamo ancora al prologo, e forse ci salva da altre risposte ancora più inquietanti.

(il presente articolo è uscito il 12 novembre 2014, su Avvenire nella rubrica Parole perdute)

Parabola=parola, cristiano=umano

Pasternak2Gesù, maestro dei professori di religione, alle domande preferiva rispondere con un’altra domanda o con un racconto, la parabola, che poi è un interrogativo in forma narrativa. La domanda che Gesù pone al suo interlocutore è al tempo stesso una chiamata, una vocazione, che fa appello alla responsabilità degli uomini, gli unici esseri viventi che sono “capaci di rispondere” (respons-abili), come cerco di spiegare ai miei studenti, sottolineando l’importanza di questa prerogativa umana, in cui risiede la dignità stessa di ogni persona.
Il narrare parabolico di Gesù è un invito all’esercizio della libertà e dell’intelligenza, un invito a tendere l’orecchio e il cuore, ad allargare la propria immaginazione, demolendo così le idee su Dio che negli anni si sono accumulate e incrostate diventando “ideologie”; proprio per questa libertà vivificante lo stile di Gesù è modello per ogni insegnante che si dedica alla crescita globale dei suoi alunni. E c’è qualche studente che va anche oltre, supera il “maestro”, come ad esempio Federica, 16 anni, che mi pro-voca con l’estratto del dizionario etimologico relativo alla parola italiana “parola”, originata proprio dalla contrazione di “parabola”: tutto nasce lì, dalle narrazioni di Gesù, protagonista narrante del più famoso e commovente dei racconti.
Federica sa che mi occupo delle “parole perdute”, di quel linguaggio religioso e cristiano che oggi sembra non aver più alcuna cittadinanza nel lessico degli adolescenti del terzo millennio, non posso quindi che premiare la sua generosità con una citazione letteraria che evidenzia la forza del parlare parabolico di Gesù: «Per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita di ogni giorno», scrive Boris Pasternak nel suo capolavoro: «Il mondo antico finì in Roma, in quell’orgia di cattivo gusto, in oro e marmi, venne lui, leggero e vestito di luce, precipuamente umano, volutamente provinciale, il Galileo, e dal quel momento i popoli e gli Dei cessarono di esistere e cominciò l’uomo, l’uomo falegname, l’uomo agricoltore, l’uomo pastore tra un gregge di pecore al tramonto, l’uomo il cui nome non suonava solenne e feroce, l’uomo generosamente offerto a tutte le ninne-nanne materne del mondo».
Anche le parabole stanno scomparendo, come evaporando dal paesaggio quotidiano di questi giovani: essi ne rammentano alcuni titoli, i più celebri, il buon samaritano, i talenti, il buon pastore, ma spesso il ricordo è confuso, pure nel caso della parabola del figliol prodigo, che parla proprio di questo, di un giovane che taglia i ponti con il mondo del padre, un mondo perduto, ma che poi, nel momento più buio, ne avverte una fame pungente e una struggente nostalgia, quasi fosse una ninna-nanna.

(il presente articolo è apparso il 22 ottobre nella rubrica Parole perdute di Avvenire)

Croci, serpenti, anelli e paradossi

serpente-di-bronzoCroci, serpenti e paradossi in margine alla liturgia del 14 settembre 2014

La liturgia di oggi ci presenta la figura del serpente di bronzo. Dal libro dei Numeri, cap.22:

Il popolo quindi parlò contro Dio e contro Mosè, dicendo: “Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo miserabile cibo”. Allora l’Eterno mandò fra il popolo dei serpenti ardenti i quali mordevano la gente, e molti Israeliti morirono. Così il popolo venne da Mosè e disse: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro l’Eterno e contro di te; prega l’Eterno che allontani da noi questi serpenti”. E Mosè pregò per il popolo. L’Eterno disse quindi a Mosè: “Fa’ un serpente ardente e mettilo sopra un’asta; e avverrà che chiunque sarà morso e lo guarderà, vivrà”. Mosè fece allora un serpente di bronzo e lo mise sopra un’asta; e avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, viveva”.

Mi ha sempre colpito questo brano, che ovviamente è prefigurazione della crocifissione di Cristo, e mi colpisce perchè è proprio il serpente, che prima dà la morte, ad essere scelto come figura salvifica; il male si combatte non pensando di esserne immuni ma attraversandolo, il male può diventare, se ne rovesciamo la logica e ribaltiamo la nostra disposizione rispetto ad esso, una via di salvezza. Il serpente se rimane strisciante per terra (la condanna di Genesi 3) è letalmente insidioso, se invece viene innalzato, diventa verticale (l’asta, l’albero della croce), luminoso (il bronzo), fonte di salvezza. Una storia quasi opposta al mito di Anteo, il gigante che se toccava terra riacquistava la forza; qui il serpente, staccato dalla terra, acquista una nuova forza, ma vitale anziché mortale. E’ il paradosso della croce, il rovesciamento della prospettiva e di tutti gli schemi mentali che immobilizzano il pensiero, il cuore e l’agire dell’uomo, quel paradosso che deve essere accolto, altrimenti non c’è movimento ma paralisi, non vita ma morte. Il che vuol dire ribaltare anche i nostri giudizi e andare fino in fondo alla sfida che il male ci presenta ogni giorno. E scoprire che magari nei nostri difetti e vizi, si annida una luce di speranza e di uscita dal vicolo cieco del peccato.

Mi viene in mente una pagina de Il signore degli anelli, in cui Gandalf racconta ai suoi amici della sua lotta strenua con il Balrog, un “serpente ardente” che lo conduce fino alla morte, anzi oltre alla morte, rivelandosi una “morte” provvidenziale. Ecco come il famoso stregone ricorda il suo duello:

“…disse Gandalf. «Ivi giunsi infine, nelle estreme fondamenta della pietra. E lui era ancora con me. Il suo fuoco era spento, ma ora si era tramutato in un essere di fango e melma, più forte di un serpente strangolatore. Lottammo a lungo nelle profondità della viva terra, ove il tempo non esiste. Sempre mi afferrava e sempre io lo colpivo, e infine fuggì attraverso oscure gallerie. […] Adesso io ho camminato in quei luoghi, ma non narrerò nulla che possa oscurare la luce del sole. Disperato com’ero, il mio nemico era l’unica speranza che avessi, e lo inseguii afferrandogli le caviglie. Così mi condusse dopo molto tempo nei segreti passaggi di Khazad-dûm, che conosceva sin troppo bene. Poi continuammo a salire, sempre più in alto, e giungemmo all’Interminabile Scala».

GandalfFallsWithTheBalrogEcco il paradosso cristiano: il nemico è la mia speranza. Forse anche per questo si deve obbedire al più paradossale dei comandamenti di Gesù, quello di amare i propri nemici.

Il nemico per eccellenza, Satana, viene condannato in Genesi 3 a strisciare, a tentare gli uomini insidiando il loro “calcagno”, le caviglie e invece qui c’è Gandalf che afferra il nemico alle sue caviglie: il ribaltamento paradossale e salvifico si compie.

Ma la liturgia di oggi, festa dell’esaltazione della croce, è tutta all’insegna del paradosso.

La solennità che si festeggia oggi si chiama L’esaltazione della croce, una vera follia se uno sbaglia l’approccio rimanendo al di fuori di quella “stoltezza” che è il cristianesimo. A me viene in mente il verso del MagnificatExaltavit Humiles”: è l’umiltà la virtù più paradossale, la casa del paradosso. E l’umiltà sta nel cuore della fede cristiana, come è evidente dalla seconda lettura di oggi, l’inno cristologico di San Paolo ai Filippesi che canta l’umiltà di Gesù che si umilia scegliendo la morte e la morte di croce, diventando simile a noi uomini perchè non ha considerato la sua eguaglianza con Dio un “tesoro geloso”. E anche qui rispunta Il signore degli anelli.

Tutta la storia narrata nel romanzo di Tolkien gira in fondo intorno a questo problema: ci sono alcuni che considerano l’Anello del Potere un “tesoro geloso” (per Gollum è il tesoro per eccellenza, un tesoro con due “s”, senza il quale non può vivere, perchè “là dove sarà il vostro tesoro sarà il vostro cuore”), e lottano per possederlo, perchè in realtà ne sono già posseduti, mentre ci sono altri che cercano, ma quanto è difficile riuscirci, di non considerarlo un tesoro geloso e sono pronti a spogliarsi di questo potere, di metterlo a servizio di tutti, di condividerlo sacrificandosi, fino alla morte. E’ il cammino di Frodo che si spoglia di tutto (dell’Anello, delle armi, degli amici, della casa, delle sicurezze..) e confida non in se stesso ma in una forza più grande, che possa accompagnarlo a compiere questa missione paradossale per non dire suicida: rinunciare al proprio potere, abbassandosi fino a morire. Questa forza più grande è all’opera e si compie, alla fine, nel modo più paradossale e inimmaginabile, sarà proprio Gollum, il “nemico” (però amato da Frodo), a far cadere l’Anello e distruggerlo, perchè ancora una volta “il mio nemico era l’unica speranza che avessi”.

 
 
 

Riflettendo sui Salmi

Lewis bnClive Staple Lewis, uno degli autori più letti al mondo, è ancora poco noto alla critica e al grande pubblico italiano che potrebbe stentare a riconoscere nell’autore di questo saggio lo stesso inventore de Le Cronache di Narnia. E invece queste Reflections on the Psalms del 1958 ci mostrano un Lewis al 100% con tutta quella curiosità, fantasia e lealtà che fece innamorare di lui anche un lettore sofisticato come J.L.Borges che elogiava “l’infinita onestà di quell’immaginazione”. E’ la stessa onestà che ritroviamo in questo saggio sin dall’incipit: “Questo non è un lavoro accademico. Non sono un ebraista, né un biblista, né uno storico antico, né un archeologo. Scrivo per gli ignoranti su cose che anch’io ignoro.”.

La speranza che lo ha mosso a questo azzardo è spiegato con un esempio: “succede spesso che due liceali possano aiutarsi a risolvere qualche difficoltà nei loro compiti meglio di quanto possa fare il loro insegnante […] In questo libro perciò scrivo da dilettante a dilettante, discorrendo di alcune difficoltà che ho incontrato o illuminazioni che ho raggiunto nel leggere i Salmi, nella speranza che ciò possa in qualche misura interessare, e talvolta persino aiutare, altri lettori inesperti. Sto scambiando gli appunti, senza la presunzione di istruzione.” Lo scambio degli appunti è quanto mai proficuo per il lettore italiano, che arriva con quasi sessant’anni di ritardo a godersi questo saggio di un genio poliedrico come Lewis (grazie al meticoloso e prezioso lavoro del traduttore/curatore Edoardo Rialti) che non fugge davanti alle pagine più problematiche, come i salmi imprecatori, della Scrittura, che tiene sempre ben presente il delicato rapporto tra Antico e Nuovo Testamento e che forse dà il meglio di sé nel capitolo dedicato al tema della lode, che lui stesso presenta come suo privato divertimento: “durante una discussione, per quanto serio possa essere l’argomento, una piccola pausa comica non fa male (nella mia esperienza le cose più divertenti sono capitate durante le conversazioni più serie e sincere).” In questo capitoletto presentato come marginale, ma che in realtà coglie l’essenza dei Salmi, con piglio molto chestertoniano, Lewis (che anche dalla lettura di Chesterton fu convertito al cristianesimo) osserva che “Non avevo mai notato che ogni appagamento trabocca spontaneamente nella lode a meno che (talvolta anche se) la timidezza o la paura di annoiare gli altri venga deliberatamente messa di sentinella. Il mondo risuona di lodi – amanti che lodano le loro dame, lettori che lodano il loro poeta preferito, camminatori che lodano la campagna, giocatori che lodano il loro sport favorito […] Non avevo notato che sono le menti più umili e al tempo stesso più equilibrate quelle capaci di lodare di più, mentre i fissati, i disadattati e gli scontenti lodano pochissimo. I buoni critici trovarono qualcosa da lodare in molte opere imperfette; i cattivi continuarono a sfoltire la lista dei libri che vanno letti. […] Non avevo neppure notato che, proprio come gli uomini lodano spontaneamente qualsiasi cosa apprezzano, altrettanto spontaneamente invitano a unirsi alla loro lode: Non è delizioso? Non è splendido? Non pensi che sia magnifico? Nel dire a tutti gli uomini di lodare Dio, i salmisti fanno come tutti gli altri uomini quando parlano di ciò che gli sta a cuore”. E’ lo stesso approccio di Lewis, che parla dei suoi interessi, innanzitutto la poesia, coinvolgendo “gli altri uomini”, i fortunati lettori di questo saggio dedicato alla poesia dei Salmi, “poesie pensate per essere cantate: non sono trattati dottrinali e nemmeno sermoni”. Lo può fare perchè con franchezza e lucidità ci provoca ricordandoci che “anche la poesia è una piccola incarnazione, che dà corpo a ciò che dapprima era invisibile e inudibile”.

(“I Salmi, C.S.Lewis, Lindau Torino 2014 172 pp., 19 euro; la presente recensione è apparsa su Il Foglio del 13 settembre 2014)

Il professore, nuovo Noè

arca-di-noe“Io cerco le parole, professore. Cerco le parole, perché secondo me sono quelle la strada per il tuo cuore” dice il Nero al Bianco ad un certo punto di Sunset Limited, testo teatrale poi diventato anche film dello scrittore americano Cormac McCarthy. È un testo che i miei studenti conoscono bene, che hanno deciso di mettere in scena, tanto li ha coinvolti questo dialogo crudo e serrato tra il volgare e violento credente e il raffinato ma disperato professore aspirante suicida che non crede più. Spesso mi riferisco a quel testo: ogni gruppo che si rispetti possiede infatti un codice, un gergo, e questo di McCarthy fa parte del lessico di molti studenti del liceo classico Albertelli di Roma.
La Bibbia, che il critico letterario Northrop Frye ha definito “il grande codice” della letteratura occidentale, è un infinito bacino di parole e immagini a cui gli uomini continuamente attingono, il più delle volte per trovare “la strada del cuore” di cui parla McCarthy. Il cuore altrui ma anche il proprio, perché spesso l’enigma è proprio il nostro cuore, questo grande sconosciuto. Misterioso è il cuore degli uomini e le parole possono essere vie per introdurci in questo mistero. Le parole della Bibbia sono vie potenti perché hanno la forza di scardinare le porte e i muri che proteggono (fino a soffocare) i cuori dei giovani, di dargli ossigeno, e così, nel lavoro di professore di religione, uno dei miei compiti, apparentemente uno dei più semplici, consiste nel portare questo scrigno pieno di tesori all’orecchio e all’intelligenza dei miei studenti. Oggi però il compito si è fatto più difficile; non c’è più dimestichezza, confidenza, con quel testo, con quelle immagini. Adamo ed Eva, Caino e Abele, Abramo e Isacco, Mosè, Davide e Golia, Erode e Pilato, Simeone e Caifa …sono nomi che stanno scomparendo come ricordi antichi e confusi. E con loro scompaiono anche le parole della fede biblica: alleanza, patto, testamento, sacrificio, grazia, salvezza.. tutte parole perdute ed io mi trovo come Noè a salvare tutto quello che posso dal diluvio, una metafora che quando la uso non viene subito colta dai ragazzi.
È lo stesso fenomeno che si verifica con le altre materie scolastiche, con la storia, con la geografia, con le regole della matematica o dell’italiano, ma fa impressione nel caso della religione, per il nesso inscindibile che c’è tra essa e la vita, un legame più profondo rispetto a tutte le altre discipline. Può essere dunque utile passare per altre vie, per altre parole, anche per quelle della letteratura o del cinema, sapendo bene che sotto c’è il grande codice della Bibbia, che ogni testo, anche quelli duri e violenti di McCarthy hanno dentro quel pre-testo che è la Parola che non si perde mai.

In parte è vero che il professore è un po’ come Noè, che salva dal diluvio tutto quello che può. Il diluvio innanzitutto della superficialità, la grande sfida del professore di oggi.
Il problema è dato, paradossalmente, non dalla povertà delle informazioni ma dall’estrema ricchezza, ma solo a livello quantitativo, che sommergono quotidianamente gli adolescenti del terzo millennio. In questo diluvio quotidiano è molto difficile “vagliare tutto” come esorta l’apostolo Paolo, il discernimento è quanto mai difficoltoso e l’accumulo indiscriminato porta ad un abbassamento dello spirito critico e ad una grande confusione.
«Noè è quello delle Tavole della Legge, vero prof, sul Sinai giusto?», mi chiede Andrea, poco convinto in verità. Per fortuna le ragazze sono, generalmente, più preparate e precise: «Che dici, Noè è quello del diluvio e dell’arca – esclama Arianna – quando Dio ha voluto punire l’umanità con la pioggia». A questo punto mi tocca precisare la precisazione di Arianna e devo intervenire, in genere cerco di limitare i miei interventi quando sono i miei studenti a condurre la discussione, e dico: «Non è stata proprio una “punizione”, il Dio della Bibbia in realtà non passa il tempo a castigare gli uomini: più che un castigo è stata una ripartenza, una nuova possibilità». «Sì, ma sono morti tutti!»; ribatte Arianna.
Mentre le rispondo rifletto che ci sono alcune parole che nel diluvio della superficialità non sono andate perdute, però a volte sono quelle sbagliate: castigo, punizione… questa idea di un Dio giudice implacabile, più duro delle antiche divinità pagane e della loro collera, questa idea così sballata si è salvata ed è rimasta a galla, anzi forse è proprio a causa della grande confusione a livello intellettuale e culturale che le idee storpiate della religione sopravvivono.
Devo provvedere a raddrizzarle, a rimettere al centro la barra del timone della mia piccola “classe-arca”: «Dio non ha ucciso tutti quegli uomini, erano già morti compiendo il male e la loro vita era corrotta, inaridita. Dio ha rigenerato l’umanità offrendo a tutti – tramite Noè e la sua famiglia rinasce l’intera umanità – una seconda possibilità, cosa che in genere noi uomini quando giudichiamo non facciamo mai».
E qui calo l’asso “cinematografico” che spesso funziona: «Hai presente Wall-E? È un remake del racconto di Noè, gli uomini erano così corrotti che il mondo è diventato luogo di morte, irrespirabile, ma Dio provvede anche a rimetterlo a posto, a renderlo vivibile. E lo fa salvando tutti per mezzo di uno, Noè, che si trascina nell’arca tutto il mondo, come dice la frase del Talmud citata in Schindler’s list…» e qui Arianna mi brucia sul tempo: «Chi salva un uomo salva il mondo intero». «Brava, sai cosa significa il nome di Gesù, vero?». Silenzio. «Dio salva».

(il presente testo è stato pubblicato in due parti sulla rubrica settimanale “Parole perdute” di Avvenire i 27 agosto e il 3 settembre 2014)