Gesù chi?

resurrezione(dalla rubrica Parole perdute di Avvenire, 2,9 e 16 aprile 2014)

A volte capita che ti trovi in una situazione inaspettata, come fare supplenza in una classe che non conosci e che è anche alquanto agitata. E allora può spuntare un’idea come un coniglio dal cilindro, per cui il trucco riesce: per esempio, fare svolgere un compito scritto su questo “argomento”: «Prendete un foglio e scrivete: “tutto quello che so su Gesù”; vi do venti minuti per dirmi tutto quello che vi viene in mente. Forza!».
All’inizio ci sono state risate e moti di ribellione, ma poi il gusto della sfida ha prevalso, e tutta la classe si è impegnata, silenziosamente, a rispondere allo strano quesito.
Alla fine ho capito che non si tratta soltanto del lessico, di parole perdute, ma anche di sostanza, si è perso non solo il linguaggio di Gesù (e del cristianesimo), ma anche Gesù stesso. L’idea dunque non è balzana, perché è la domanda per eccellenza, quella che Gesù stesso fece nei pressi di Cesarea di Filippo ai suoi amici più intimi: «Voi, chi dite che io sia?». All’epoca solo uno su dodici diede la risposa giusta, e questo può rincuorarci, visto che oggi la media è un po’ più alta.
Ovviamente, sono più interessanti gli errori o le fantasiose ricostruzioni. Già girando tra i banchi avevo ascoltato qualche notevole scambio di domande tra i ragazzi, del tipo: «Senti un po’, chi è che è nato alla Befana?». E i primi compiti che ho corretto si sono rivelati ricchi di dettagli curiosi: «Gesù è nato da Giuseppe, falegname, e da Maria, casalinga», il che, in effetti, è incontestabile. «Gesù fu il più grande falegname della storia»; «Si è reincarnato nel seno della Vergine Maria, fecondata dalla Spirito Santo senza preavviso».
C’è poi un problema di base, proprio con le categorie spazio-temporali: non si sa né dove né quando sia nato e vissuto Gesù. Molti lo fanno nascere a Nazareth, altri lo fanno morire a Roma. Anche sul “quando” c’è da preoccuparsi. Ad esempio Donato, interrogato oralmente, mi ha risposto: «Gesù è nato ai tempi di re Erode». L’infarinatura c’è, ma solo quella. Quando chiedo di precisare l’epoca storica, Donato fa scena muta. Lo rimando al posto e lui mi chiede: «Come sono andato?». «Male, Donato, che domanda mi fai?». «Beh, Erode c’era tutto!».
Sono simpatici questi ragazzi, ti strappano le risate in mille modi, ma il quadro che rivelano spesso è desolante. Inoltre, e questo forse è il dato più (drammaticamente) interessante, la maggior parte degli elaborati ha omesso o sminuito il fatto della morte e resurrezione di Cristo, ha prevalso per lo più l’indicazione del messaggio portato da Gesù, non il messaggero e il suo destino. Mi aspetta molto da fare.

«Gesù è nato nell’anno 0 a Nazareth ed è morto a Betlemme nel 33 dopo Cristo». Perfetto, una bella serie di errori. Né il dove né il quando, niente da fare, non gli entra in testa: di Gesù si sono perse le tracce, ci deve essere stata qualche interruzione lungo la linea. Sto correggendo i compiti dati in modo estemporaneo a un paio di classi ginnasiali, e questo di Stefano è uno degli errori più ricorrenti. Gesù è nato a Nazareth, di Betlemme solo alcuni hanno un vago ricordo.
Provo a parlare loro del presepe, ma anche questa è una parola perduta, del resto, l’episodio di dicembre, della rimozione forzata del presepe in sosta vietata nei corridoio della scuola statale, è fin troppo eloquente. Non sanno dove è nato né dove è morto e protestano: «Ma allora perché lo chiamano “di Nazareth”?», chiede Massimo e mi fa venire in mente Paolo VI, il quale osservava come non vi fosse solo una storia della salvezza, ma anche una “geografia della salvezza”, ma è proprio qui, sulla storia e la geografia, che emergono la carenze più vistose.
E sulla categoria “tempo” la situazione è anche peggiore. In molti sono fissati con questa “nozione” del cosiddetto “anno zero”. Ne parlano con una sicurezza adamantina. Solo Pietro ad un certo punto viene assalito da un dubbio, deve essere una qualità insita nel nome, e dice, un po’ a bassa voce: «Ma no, non è l’anno zero, perché è nato a dicembre, è l’anno prima…». Prendo al volo l’occasione e dico a tutti: «Ecco, scusate un attimo, allora l’anno prima della nascita di Gesù come si definisce, l’anno “meno uno”?».
Qualche risata c’è ma è stentata, perché vedo che i più brancolano nel buio. Bisogna ridere con gli studenti, però non ridere di loro, sorridere senza deridere, sarebbe la crisi del rapporto educativo. È il caso quindi di provare a recuperare insieme quel terreno che è stato perso, smarrito non so quando, forse durante gli anni delle medie, e che vede nella materia della storia la principale vittima.
«Qual era il sistema di datazione ai tempi in cui è nato Gesù?», chiedo per indirizzarli, ma pochi ci arrivano. Faccio presente che oggi, ogni volta che un uomo, a prescindere dalla fede professata, scrive la data del giorno, fa riferimento a Gesù nel momento preciso in cui indica l’anno 2014, ma prima ovviamente non era così e chiedo loro, studenti del classico, di dirmi qual era il punto di riferimento da cui si partiva.
Finalmente Laura arriva al punto: «Dalla fondazione di Roma». Altri ancora protestano: «Ma non è giusto! Perché i Romani e poi i cristiani hanno imposto a tutti gli altri il loro sistema?». Già, perché? Si dovrà ripartire da qui, dal fascino di quel personaggio che ha spaccato in due la storia.

Gesù, questo sconosciuto. In effetti forse il dato più inquietante è che i miei studenti, nel raccontare quello che sanno sul fondatore del cristianesimo, staccano il messaggio dal messaggero (alla faccia di Marshall McLuhan) e si concentrano sulla bellezza delle parole di Gesù dimenticandone la persona e il suo mistero.
Ad esempio la resurrezione è qualcosa che risulta oscura, nonostante le chiare parole di Paolo: «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede». Scrive ad esempio Fulvio che «Qualche giorno dopo la sua morte, risorse, facendo capire che la vita non è nel corpo ma nell’anima», un’affermazione che apre all’equivoco della reincarnazione, una parola non perduta ma inopportuna nel contesto cristiano, che invece viene spesso usata dai miei giovani studenti.
Chiedo allora la differenza tra resurrezione e reincarnazione ma le risposte sono confuse, soprattutto a causa dell’ignoranza su un concetto fondamentale del cristianesimo: l’incarnazione.
In fondo siamo ancora fermi all’Areopago, quando Paolo annuncia il kerigma e gli ateniesi «quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: “Ti sentiremo su questo un’altra volta”». A vederli questi ragazzi mi sembrano ancora “greci”: forse per colpa delle mode religiose che provengono dall’oriente sta di fatto che oggi tra i giovani il pensiero su queste cose è rimasto ad un vago platonismo (per lo più inconsapevole, ancora non studiano la filosofia) per cui l’uomo è diviso in due, anima e corpo, la prima, nobile e incorruttibile, imprigionata nell’ignobile secondo.
Spiego dunque loro che i greci, finché Paolo parlava di vita oltre la morte, non si meravigliavano più di tanto, credendo anche loro nell’immortalità dell’anima, ma è proprio la resurrezione della carne a scandalizzarli, a suonare come un “discorso duro”, incomprensibile. Ancora oggi è la “fisicità” del cristianesimo, che secondo Romano Guardini è «la religione più materialista di tutte», ad essere di scandalo, a rivelarsi segno di contraddizione. In un periodo storico così contrassegnato dalla carnalità, si pensi alla diffusione così pervasiva della pornografia, la carne ha finito per svuotarsi di significato e con essa anche lo spirito. Si è perso il baricentro e le verità dello spirito e della carne, che compongono quell’unità concreta e indissolubile che è l’uomo (secondo la visione semita e biblica), sono come impazzite, estremizzandosi e assolutizzandosi.
Da qui nascono i vizi carnali e, peggio, le eresie spiritualiste. Non è una cronaca del Medio Evo, ma di quello che quotidianamente emerge dalle parole degli studenti adolescenti di un liceo di Roma.

Parole perdute: santità (non perbenismo)

via strettaSì, forse la colpa è anche un po’ di noi cristiani, se l’enorme bagaglio della nostra fede, che per venti secoli ha nutrito l’umanità, si è oggi così rattrappito fino a mostrare un volto che è l’opposto, la caricatura, della sua essenza: il moralismo.
Parlare dei “novissimi” ai giovani del terzo millennio è toccare con mano come, essendosi smarrito il senso morale, che pure dal cristianesimo scaturiva come diretta conseguenza dello stupore dello scoprirsi amati da un Dio misericordioso, sia rimasto in piedi solo una maschera falsa e accartocciata, la brutta erba del vuoto moralismo.
Per secoli la predicazione dei cristiani si è concentrata sul concetto di premio e di pena eterna e così, quando si arriva a parlare di inferno e paradiso, le caselle scattano automaticamente e non è piccola la sorpresa quando spiego che l’inferno non è proprio una punizione come possiamo intenderla noi uomini. Mi guardano incuriositi, persino increduli. Faccio l’esempio del cioccolato: se ne mangio troppo e rubo anche la parte spettante a mio fratello, mamma mi può punire e non mandarmi in gita, ma prima ancora c’è un’altra “punizione”, che consiste nel fatto che mi sento male, ho un’indigestione, mi spuntano i brufoli e ingrasso fino all’obesità.
Tutto questo non è tanto una punizione, ma è la somma degli effetti della mia condotta. Così sarà l’inferno: continuare a vivere dopo la morte come ho vissuto per tutta la mia vita, pieno di brufoli e di chili di troppo e privo di fratelli. Fare il male equivale a stare male, non ci sono punizioni in aggiunta.
C’è chi, come Federico, continua a provocare dicendo che è meglio il male e il peccato rispetto alla noia ripetitiva del bene. Vorrei citare le parole spese da Benedetto XVI sulla gioia della vita di fede contro la noia della vita appesantita dal peccato, ma scelgo anch’io la via della provocazione: «Ma voi pensate che i santi siano persone per bene?». Ammutoliscono, qualche ragazza ha sulla punta della lingua un bel, tragico, «sì!», ma io procedo spedito: «Beh, se fosse così allora sì che sarebbe una gran noia il paradiso!». «Ma allora chi sono i santi?», sbotta Irene, non ce l’ha fatta a trattenere la domanda. «I santi sono persone che fanno splendere la luce di Cristo, che si sono arresi al suo amore e si sono lasciati attirare in questa grande avventura che è la storia d’amore tra un Dio trinitario e le sue creature: la santità e la comunione dei santi sono le avventure più vivaci e drammatiche che possiamo vivere, e possiamo davvero, tutti, nessuno escluso».
Forse troppa teologia in questa lezione, un po’ de-moralizzante, ma, penso, a volte ci vuole anche questo.
(da Avvenire del 26 marzo 2014)

Parole perdute: Paradiso

ibernan001p1Il paradiso è noioso? Solo se vincono i moralisti (da Avvenire del 19.3.2014)
 Se è vero che «l’inferno è non amare più», come scrive Bernanos nel suo Diario di un curato di campagna, si può allora comprendere meglio che cosa sia il paradiso, quella condizione di chi è immerso nell’amore, un Amore senza fine. Ma il paradiso non è così facile da spiegare, forse dei Novissimi è l’ostacolo più duro, quello che sembra più al di fuori dell’esperienza degli adolescenti. 
Possiamo anche ripetere, noi adulti, “beata gioventù!”, ma della beatitudine eterna questi giovani sembrano non sapere nulla. Forse è l’aggettivo “eterna” che disorienta, respinge; i ragazzi non riescono a comprendere qualcosa che non finisce spezzando le categorie spazio-temporali. Penso alla fragilità delle relazioni, la nota costante del mondo contemporaneo, di questa confusa e “liquida” società post-moderna: come fare a spiegare quell’abbraccio d’amore più forte della morte e del tempo? Tutto sembra essere “a tempo”, con una scadenza ed è ingenuo pensare che qualcosa possa durare per sempre.
Da questa chiusura, figlia della paura, scatta il rifiuto: «A professo’, che noia però un paradiso eterno! – esclama Federico –. Ma che fanno ‘sti santi tutto quel tempo? Contemplano Dio, oh mamma!». È un argomento classico dei giovani che, forse perché imbeccati dai docenti, di Dante preferiscono l’Inferno al Paradiso. Qualcuno ricorda la battuta di Mark Twain: «Il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia», qualcun altro sorride, io ne approfitto per ribaltarla e spiegare meglio di cosa stiamo parlando.
«Questa battuta ci può aiutare ragazzi, seguitemi». Fanno silenzio, meglio approfittarne subito. «Del clima non saprei dirvi, ma la compagnia è il punto fondamentale e allora sappiatelo: il paradiso è il “luogo” della compagnia, mentre l’inferno è il contrario della compagnia, nessuna comunione, nessuna comunità, nessuna amicizia». Mi rendo conto che quello che non capiscono è che l’inferno più che una “punizione” è solo la conseguenza delle proprie scelte, tutte quelle piccole scelte infinitesimali che alla fine portano un essere umano a chiudersi o ad aprirsi ad un amore più grande.
Non è un caso se il nome che compare ogni volta che si parla di inferno è quello di Hitler. È paradossale, ma questo è un nome che rassicura i ragazzi, se si parla di inferno: Hitler deve essere tra i dannati, così tutto è più chiaro. Mi rendo conto che questi adolescenti hanno del cristianesimo un’immagine talmente impoverita da essere distorta, per cui quello che gli è rimasto appiccato addosso è l’opposto di ciò che è l’essenza della fede in Cristo, cioè il moralismo: urge una lezione ad hoc su questo punto.

Inferno e Paradiso

mv-porta-socchiusaE’ il momento di passare a parlare di inferno e di paradiso e già c’è maggiore “fermento” tra i ragazzi, con un giudizio che emerge per motivi diversi, ma che in entrambi i casi è lo stesso: “che ingiustizia!”. E’ ingiusto l’inferno, dice Giada, perchè “allora che fine fa la misericordia, infinita, di Dio? Come può esistere un inferno eterno, persone eternamente separate dall’amore di Dio?”. Per Michele invece è il paradiso a essere ingiusto: “Uno si comporta male tutta la vita, poi basta una lacrimuccia e tutto è cancellato? Una confessione all’ultimo minuto e via, tutti dentro, ma che giustizia è?”. Insomma, questo “al-di-là” sembra piuttosto un “al-di-più”, qualcosa che non entra nelle nostre categorie. Ed è proprio così. Provo a spiegare ai ragazzi che la “vita eterna” non è quella che inizia “dopo”, proprio perchè, in quanto eterna questa vita non inizia nemmeno, ma è, sempre. E’ quel “di più”, quella pienezza di cui, qui, ora, ogni giorno, avvertiamo la mancanza, per cui ci struggiamo di desiderio, quella gioia che ci attira e che proviene da fuori, da ciò che chiamiamo il futuro, ma che si trova anche prima di noi, alla nostra radice. E’ Dio che ci ha creati e che ci chiama a sé, con la sua luce che filtra dappertutto nella nostra vita, e sembra provenire dal “dopo”, come aveva colto, inconsapevolmente, Giacomo qualche giorno fa quando aveva detto che “la morte non è nulla, perchè dopo non esiste nulla”, come a dire che qualcosa assume consistenza e significato da quello che avviene dopo: la soluzione finale del film giallo getta una luce retrospettiva su tutta la storia, dandogli senso. Forse per questo la morte di un bambino ci strugge più di quella di un vecchio: un bambino è “tutto futuro” ed è da quel futuro che riceve significato. E’ la speranza la nostra condizione più autentica.

Claudio Baglioni, reduce dall’incontro degli artisti del 21 novembre 2009 con Benedetto XVI, aveva scritto un bel pezzo sull’Osservatore Romano in cui diceva che gli uomini in questa vita si trovano come in una stanza buia con una porta da cui filtra un esile fascio di luce che proviene dalla camera attigua. Gli artisti sono quelle persone che si trovano più vicini alla porta e avvertono prima degli altri quella luce che provano a comunicare. Di nuovo l’arte, la bellezza, si ritorna sempre lì, anche attraverso la musica popolare e quelle che (non) “sono solo canzonette”. E l’inferno e il paradiso sono proprio lì, ben piazzati nell’immaginario più semplice, popolare, anche dei ragazzi più smaliziati e sofisticati di questa prima decade dell’iper-tecnologico terzo millennio.

(Il presente articolo è apparso sulla rivista Parole Perdute di Avvenire il 5 marzo 2014)

Distinguere, non dividere

Venus_botticelli_detailIl giudizio: è questo forse il passaggio più difficile nell’indagine sui novissimi, fondamentale parola perduta del cristianesimo. Anche al tema del giudizio, come a quello della morte, i ragazzi sono allergici, dimostrando una iper-sensibilità che suona paradossale, visto poi l’uso e l’abuso che fanno del giudicare. Proprio come nel caso nella morte, vivono immersi in contesti (come la scuola, ma anche la società, i media…) in cui il giudizio è praticamente dappertutto e al tempo stesso mostrano una vera repulsione verso l’essere giudicati. Sono apodittici, categorici e tranchant, ma anche delicatissimi e insofferenti a ogni tipo di giudizio che cali sulla loro persona.
Viene in mente la provocazione del cardinale Biffi, per cui oggi non si sarebbe perso il senso del peccato, perché invece è molto vivo il senso del peccato altrui. Viviamo il tempo della denuncia fine a se stessa, la denuncia come evento salvifico che serve da sfogo e catarsi.
Viene in mente anche un’altra provocazione, quella del filosofo Roger Scruton, che si è chiesto perché il mondo stia diventando più brutto e ha trovato una risposta nella dimensione “giudicante” della bellezza. Ricorda Scruton l’episodio del Padiglione d’oro di Kyoto, il tesoro più prezioso dell’architettura giapponese, che nel 1950 fu incendiato da un monaco, un novizio di 22 anni, Hayashi Yoken, che subito dopo tentò il suicidio. Il motivo addotto dall’autore fu l’estrema bellezza del Padiglione, che egli avvertiva come un giudizio negativo su se stesso. I ragazzi mi ascoltano con un’attenzione che rimane però fredda, forse capiscono quello che racconto ma non lo “sentono”.
Cerco allora di avvicinarmi di più al loro vissuto e faccio l’esempio di due innamorati chiedendo: «Cosa si dicono l’un l’altro?». Esitano e quindi mi tocca citare una famosa canzone di Gianni Morandi: Non son degno di te. Tutti o quasi non la conoscono, però non ignorano il sentimento che vibra sotto: «Non è questo sentimento di indegnità, di inadeguatezza, un segnale che dice che ci si trova davanti a qualcosa di grande?». Ma c’è un’altra canzonetta che mi viene contrapposta da Beatrice: Nessuno mi può giudicare (anche se lei ignora Caterina Caselli e il suo casco d’oro). Capisco infine perché la battuta del Papa rivolta ai gay, “chi sono io per giudicare?”, abbia fatto il giro del mondo: c’è una disperata e confusa richiesta di misericordia, quella virtù che l’uomo non riesce a tenere insieme alla giustizia, ma che in Dio coabitano. È proprio vero come dice Silvano Fausti che «dividere è la morte, distinguere è la vita».
(Il presente articolo è apparso nella rubrica Parole perdute il 26 febbraio 2014 su Avvenire)