Andrea è sicuro, spedito: «Per me è chiarissima l’immagine di Dio, prof, ha presente Zeus?». «A quale immagine di Zeus ti riferisci?». «Quello di lui con la barba folta e i capelli al vento, quando sta così con il braccio teso…» e mima il gesto per cui io comprendo, inequivocabilmente, l’equivoco: sta parlando dell’affresco michelangiolesco della creazione di Adamo, con il dito di Dio che quasi tocca (o ha appena toccato?) il dito del primo uomo.
A me Andrea è simpatico, anche per una specie di solidarietà per omonimia, ma questa volta si è superato sovrapponendo e confondendo il nome di Zeus al volto del Dio raccontato dal libro della Genesi. Però in fondo ha espresso una suggestione molto diffusa, quella legata alla potenza immaginifica dell’arte di Michelangelo, quell’arte che ha spinto Karol Wojtyla nel suo Trittico Romano del 2003 ad affermare che: «Il Libro aspetta l’immagine – È giusto: aspettava un suo Michelangelo».
Una creazione, quella di Dio, incompleta, che attende l’opera, anche artistica, dell’uomo. Sono tentato di intraprendere questa strada che mi si è spalancata davanti, la strada della Bellezza, via pulchritudinis… ma forse è meglio procedere gradualmente, ho davanti a me i quattordicenni del ginnasio, non i maturandi del liceo e approfitto dell’aver citato Giovanni Paolo II, da qualche giorno elevato agli onori degli altari per abbassare il livello (almeno secondo me).
Sul volto dei santi, di San Giovanni XXIII e di San Giovanni Paolo II, splende la bellezza del volto di Dio, chiedo quindi loro cosa hanno capito del grande evento di domenica 27 aprile con la duplice canonizzazione. Le risposte sono vaghe. Li aiuto con qualche domanda: «Chi è, cosa significa essere santo?», «Chi è il Papa?». Anziché scioglierli li ho bloccati. Succedono a volte degli strani incastri per cui le conversazioni prendono pieghe impreviste che portano a vicoli ciechi. Cerco di venirne fuori: «Non è la prima volta che un Papa è proclamato santo, ma innanzitutto chi è stato il primo Papa?».
Incrocio con lo sguardo Pierluigi, che si ritiene formalmente interrogato e risponde: «Pio XII». Qualcuno ride, io dentro di me piagnucolo, e rincalzo: «Qui il problema mi sembra la matematica, non la storia: e i primi undici che fine hanno fatto?». Sergio, il compagno di banco, gli suggerisce: «Pio I!». «Lasciamo perdere Pio, forza, quando è iniziata la storia della chiesa?». «Nel 1850». Chissà perché quella data poi, mi chiedo e penso tra me e me: la questione merita di essere indagata, me lo riprometto, ma avverto forte la malinconia di non avere preso la via pulchritudinis…
(Apparso su Avvenire del 7 maggio 2014)
Categoria: Scuola
Gesù è risorto, perché? per chi?
Gesù è dunque risorto, ho cercato di spiegarlo ai miei studenti, distinguendo la resurrezione dalla reincarnazione, oggi così di moda. Meglio dire “annunciarlo”, che è l’unica cosa da fare con il Vangelo, la Buona Notizia, anche in un contesto scolastico.
Se fossi solo “uno che spiega”, si perderebbe qualcosa: con alcune cose, come la vita, più che spiegare si tratta di (lasciar) “dispiegare”.
Dunque, quale sarebbe la buona notizia, per me, per il mondo? Per rispondere bisogna risalire al senso della missione di Gesù e farsi qualche altro interrogativo (i miei alunni dicono che faccio troppe domande) e chiedersi per quale motivo, quel giorno, il primo dopo il sabato, il 9 aprile del 30 dopo Cristo, secondo gli studi più approfonditi, questo evento è accaduto? Quel fatto di venti secoli fa, annunciato dalle donne che tornano agitate dal sepolcro, che rilevanza ha per me, qui, oggi?
Rileggo ciò che questi ragazzi di 14-15 anni hanno scritto su quel compito estemporaneo che ho dato loro («Tutto quello che so su Gesù»), un’autentica miniera inesauribile, soprattutto quando si concentrano sui motivi della morte e della resurrezione di Cristo.
Scrive ad esempio Martina che Gesù «intorno a sé aveva 12 discepoli fedelissimi, gli Apostoli, tra cui Pietro (fondatore della Chiesa), Giovanni (il più fedele) e Giuda che sarà poi il suo traditore. Era perseguitato dai Romani e dagli Ebrei, che lo consideravano un ipocrita, poiché si denominava “re dei Giudei”».
E Stefano, con un lessico alquanto “singolare”, aggiunge che: «Ogni suo gesto spiega come l’essere umano è libero di scegliere, nel bene o nel male. Persone ancora oggi lo rinnegano pensando che non sia esistito, ma essi sapranno veramente i gesti compiuti? Nato a Betlemme, è riuscito a portare con lui dei seguaci, i 12 apostoli. È stato tradito, ma appunto il suo grande cordoglio ha portato a perdonare. Questo è Gesù».
Mi appunto la parola “perdono”, dovremmo tornarci sopra, ma è il testo di Simona che colpisce la mia attenzione, un po’ per la confusione che emerge, ma anche per l’attualizzazione che riesce a compiere, a modo suo: «Gesù è la nostra guida e soprattutto il nostro sostegno, la gente ogni giorno ha bisogno di aggrapparsi a qualcuno ha bisogno di sfogarsi e incolpare qualcuno! Molte volte quando ci succede una disgrazia si dà sempre la colpa a Gesù o a Dio per il fatto che non è colpa di nessuno e non si sa come e con chi arrabbiarsi. In questo modo Gesù ci dà il suo amore ci ascolta ci fa sfogare e ci guida perché molte volte per aiutarci scende a terra e compie quelle cose dette “miracoli”».
(il presente articolo è apparso in Parole Perdute di Avvenire del 23 aprile 2014)
Gesù chi?
(dalla rubrica Parole perdute di Avvenire, 2,9 e 16 aprile 2014)
A volte capita che ti trovi in una situazione inaspettata, come fare supplenza in una classe che non conosci e che è anche alquanto agitata. E allora può spuntare un’idea come un coniglio dal cilindro, per cui il trucco riesce: per esempio, fare svolgere un compito scritto su questo “argomento”: «Prendete un foglio e scrivete: “tutto quello che so su Gesù”; vi do venti minuti per dirmi tutto quello che vi viene in mente. Forza!».
All’inizio ci sono state risate e moti di ribellione, ma poi il gusto della sfida ha prevalso, e tutta la classe si è impegnata, silenziosamente, a rispondere allo strano quesito.
Alla fine ho capito che non si tratta soltanto del lessico, di parole perdute, ma anche di sostanza, si è perso non solo il linguaggio di Gesù (e del cristianesimo), ma anche Gesù stesso. L’idea dunque non è balzana, perché è la domanda per eccellenza, quella che Gesù stesso fece nei pressi di Cesarea di Filippo ai suoi amici più intimi: «Voi, chi dite che io sia?». All’epoca solo uno su dodici diede la risposa giusta, e questo può rincuorarci, visto che oggi la media è un po’ più alta.
Ovviamente, sono più interessanti gli errori o le fantasiose ricostruzioni. Già girando tra i banchi avevo ascoltato qualche notevole scambio di domande tra i ragazzi, del tipo: «Senti un po’, chi è che è nato alla Befana?». E i primi compiti che ho corretto si sono rivelati ricchi di dettagli curiosi: «Gesù è nato da Giuseppe, falegname, e da Maria, casalinga», il che, in effetti, è incontestabile. «Gesù fu il più grande falegname della storia»; «Si è reincarnato nel seno della Vergine Maria, fecondata dalla Spirito Santo senza preavviso».
C’è poi un problema di base, proprio con le categorie spazio-temporali: non si sa né dove né quando sia nato e vissuto Gesù. Molti lo fanno nascere a Nazareth, altri lo fanno morire a Roma. Anche sul “quando” c’è da preoccuparsi. Ad esempio Donato, interrogato oralmente, mi ha risposto: «Gesù è nato ai tempi di re Erode». L’infarinatura c’è, ma solo quella. Quando chiedo di precisare l’epoca storica, Donato fa scena muta. Lo rimando al posto e lui mi chiede: «Come sono andato?». «Male, Donato, che domanda mi fai?». «Beh, Erode c’era tutto!».
Sono simpatici questi ragazzi, ti strappano le risate in mille modi, ma il quadro che rivelano spesso è desolante. Inoltre, e questo forse è il dato più (drammaticamente) interessante, la maggior parte degli elaborati ha omesso o sminuito il fatto della morte e resurrezione di Cristo, ha prevalso per lo più l’indicazione del messaggio portato da Gesù, non il messaggero e il suo destino. Mi aspetta molto da fare.
«Gesù è nato nell’anno 0 a Nazareth ed è morto a Betlemme nel 33 dopo Cristo». Perfetto, una bella serie di errori. Né il dove né il quando, niente da fare, non gli entra in testa: di Gesù si sono perse le tracce, ci deve essere stata qualche interruzione lungo la linea. Sto correggendo i compiti dati in modo estemporaneo a un paio di classi ginnasiali, e questo di Stefano è uno degli errori più ricorrenti. Gesù è nato a Nazareth, di Betlemme solo alcuni hanno un vago ricordo.
Provo a parlare loro del presepe, ma anche questa è una parola perduta, del resto, l’episodio di dicembre, della rimozione forzata del presepe in sosta vietata nei corridoio della scuola statale, è fin troppo eloquente. Non sanno dove è nato né dove è morto e protestano: «Ma allora perché lo chiamano “di Nazareth”?», chiede Massimo e mi fa venire in mente Paolo VI, il quale osservava come non vi fosse solo una storia della salvezza, ma anche una “geografia della salvezza”, ma è proprio qui, sulla storia e la geografia, che emergono la carenze più vistose.
E sulla categoria “tempo” la situazione è anche peggiore. In molti sono fissati con questa “nozione” del cosiddetto “anno zero”. Ne parlano con una sicurezza adamantina. Solo Pietro ad un certo punto viene assalito da un dubbio, deve essere una qualità insita nel nome, e dice, un po’ a bassa voce: «Ma no, non è l’anno zero, perché è nato a dicembre, è l’anno prima…». Prendo al volo l’occasione e dico a tutti: «Ecco, scusate un attimo, allora l’anno prima della nascita di Gesù come si definisce, l’anno “meno uno”?».
Qualche risata c’è ma è stentata, perché vedo che i più brancolano nel buio. Bisogna ridere con gli studenti, però non ridere di loro, sorridere senza deridere, sarebbe la crisi del rapporto educativo. È il caso quindi di provare a recuperare insieme quel terreno che è stato perso, smarrito non so quando, forse durante gli anni delle medie, e che vede nella materia della storia la principale vittima.
«Qual era il sistema di datazione ai tempi in cui è nato Gesù?», chiedo per indirizzarli, ma pochi ci arrivano. Faccio presente che oggi, ogni volta che un uomo, a prescindere dalla fede professata, scrive la data del giorno, fa riferimento a Gesù nel momento preciso in cui indica l’anno 2014, ma prima ovviamente non era così e chiedo loro, studenti del classico, di dirmi qual era il punto di riferimento da cui si partiva.
Finalmente Laura arriva al punto: «Dalla fondazione di Roma». Altri ancora protestano: «Ma non è giusto! Perché i Romani e poi i cristiani hanno imposto a tutti gli altri il loro sistema?». Già, perché? Si dovrà ripartire da qui, dal fascino di quel personaggio che ha spaccato in due la storia.
Gesù, questo sconosciuto. In effetti forse il dato più inquietante è che i miei studenti, nel raccontare quello che sanno sul fondatore del cristianesimo, staccano il messaggio dal messaggero (alla faccia di Marshall McLuhan) e si concentrano sulla bellezza delle parole di Gesù dimenticandone la persona e il suo mistero.
Ad esempio la resurrezione è qualcosa che risulta oscura, nonostante le chiare parole di Paolo: «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede». Scrive ad esempio Fulvio che «Qualche giorno dopo la sua morte, risorse, facendo capire che la vita non è nel corpo ma nell’anima», un’affermazione che apre all’equivoco della reincarnazione, una parola non perduta ma inopportuna nel contesto cristiano, che invece viene spesso usata dai miei giovani studenti.
Chiedo allora la differenza tra resurrezione e reincarnazione ma le risposte sono confuse, soprattutto a causa dell’ignoranza su un concetto fondamentale del cristianesimo: l’incarnazione.
In fondo siamo ancora fermi all’Areopago, quando Paolo annuncia il kerigma e gli ateniesi «quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: “Ti sentiremo su questo un’altra volta”». A vederli questi ragazzi mi sembrano ancora “greci”: forse per colpa delle mode religiose che provengono dall’oriente sta di fatto che oggi tra i giovani il pensiero su queste cose è rimasto ad un vago platonismo (per lo più inconsapevole, ancora non studiano la filosofia) per cui l’uomo è diviso in due, anima e corpo, la prima, nobile e incorruttibile, imprigionata nell’ignobile secondo.
Spiego dunque loro che i greci, finché Paolo parlava di vita oltre la morte, non si meravigliavano più di tanto, credendo anche loro nell’immortalità dell’anima, ma è proprio la resurrezione della carne a scandalizzarli, a suonare come un “discorso duro”, incomprensibile. Ancora oggi è la “fisicità” del cristianesimo, che secondo Romano Guardini è «la religione più materialista di tutte», ad essere di scandalo, a rivelarsi segno di contraddizione. In un periodo storico così contrassegnato dalla carnalità, si pensi alla diffusione così pervasiva della pornografia, la carne ha finito per svuotarsi di significato e con essa anche lo spirito. Si è perso il baricentro e le verità dello spirito e della carne, che compongono quell’unità concreta e indissolubile che è l’uomo (secondo la visione semita e biblica), sono come impazzite, estremizzandosi e assolutizzandosi.
Da qui nascono i vizi carnali e, peggio, le eresie spiritualiste. Non è una cronaca del Medio Evo, ma di quello che quotidianamente emerge dalle parole degli studenti adolescenti di un liceo di Roma.
Parole perdute: santità (non perbenismo)
Parlare dei “novissimi” ai giovani del terzo millennio è toccare con mano come, essendosi smarrito il senso morale, che pure dal cristianesimo scaturiva come diretta conseguenza dello stupore dello scoprirsi amati da un Dio misericordioso, sia rimasto in piedi solo una maschera falsa e accartocciata, la brutta erba del vuoto moralismo.
Per secoli la predicazione dei cristiani si è concentrata sul concetto di premio e di pena eterna e così, quando si arriva a parlare di inferno e paradiso, le caselle scattano automaticamente e non è piccola la sorpresa quando spiego che l’inferno non è proprio una punizione come possiamo intenderla noi uomini. Mi guardano incuriositi, persino increduli. Faccio l’esempio del cioccolato: se ne mangio troppo e rubo anche la parte spettante a mio fratello, mamma mi può punire e non mandarmi in gita, ma prima ancora c’è un’altra “punizione”, che consiste nel fatto che mi sento male, ho un’indigestione, mi spuntano i brufoli e ingrasso fino all’obesità.
Tutto questo non è tanto una punizione, ma è la somma degli effetti della mia condotta. Così sarà l’inferno: continuare a vivere dopo la morte come ho vissuto per tutta la mia vita, pieno di brufoli e di chili di troppo e privo di fratelli. Fare il male equivale a stare male, non ci sono punizioni in aggiunta.
C’è chi, come Federico, continua a provocare dicendo che è meglio il male e il peccato rispetto alla noia ripetitiva del bene. Vorrei citare le parole spese da Benedetto XVI sulla gioia della vita di fede contro la noia della vita appesantita dal peccato, ma scelgo anch’io la via della provocazione: «Ma voi pensate che i santi siano persone per bene?». Ammutoliscono, qualche ragazza ha sulla punta della lingua un bel, tragico, «sì!», ma io procedo spedito: «Beh, se fosse così allora sì che sarebbe una gran noia il paradiso!». «Ma allora chi sono i santi?», sbotta Irene, non ce l’ha fatta a trattenere la domanda. «I santi sono persone che fanno splendere la luce di Cristo, che si sono arresi al suo amore e si sono lasciati attirare in questa grande avventura che è la storia d’amore tra un Dio trinitario e le sue creature: la santità e la comunione dei santi sono le avventure più vivaci e drammatiche che possiamo vivere, e possiamo davvero, tutti, nessuno escluso».
Forse troppa teologia in questa lezione, un po’ de-moralizzante, ma, penso, a volte ci vuole anche questo.
(da Avvenire del 26 marzo 2014)
Parole perdute: Paradiso
Da questa chiusura, figlia della paura, scatta il rifiuto: «A professo’, che noia però un paradiso eterno! – esclama Federico –. Ma che fanno ‘sti santi tutto quel tempo? Contemplano Dio, oh mamma!». È un argomento classico dei giovani che, forse perché imbeccati dai docenti, di Dante preferiscono l’Inferno al Paradiso. Qualcuno ricorda la battuta di Mark Twain: «Il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia», qualcun altro sorride, io ne approfitto per ribaltarla e spiegare meglio di cosa stiamo parlando.
«Questa battuta ci può aiutare ragazzi, seguitemi». Fanno silenzio, meglio approfittarne subito. «Del clima non saprei dirvi, ma la compagnia è il punto fondamentale e allora sappiatelo: il paradiso è il “luogo” della compagnia, mentre l’inferno è il contrario della compagnia, nessuna comunione, nessuna comunità, nessuna amicizia». Mi rendo conto che quello che non capiscono è che l’inferno più che una “punizione” è solo la conseguenza delle proprie scelte, tutte quelle piccole scelte infinitesimali che alla fine portano un essere umano a chiudersi o ad aprirsi ad un amore più grande.
Non è un caso se il nome che compare ogni volta che si parla di inferno è quello di Hitler. È paradossale, ma questo è un nome che rassicura i ragazzi, se si parla di inferno: Hitler deve essere tra i dannati, così tutto è più chiaro. Mi rendo conto che questi adolescenti hanno del cristianesimo un’immagine talmente impoverita da essere distorta, per cui quello che gli è rimasto appiccato addosso è l’opposto di ciò che è l’essenza della fede in Cristo, cioè il moralismo: urge una lezione ad hoc su questo punto.