E’ il momento di passare a parlare di inferno e di paradiso e già c’è maggiore “fermento” tra i ragazzi, con un giudizio che emerge per motivi diversi, ma che in entrambi i casi è lo stesso: “che ingiustizia!”. E’ ingiusto l’inferno, dice Giada, perchè “allora che fine fa la misericordia, infinita, di Dio? Come può esistere un inferno eterno, persone eternamente separate dall’amore di Dio?”. Per Michele invece è il paradiso a essere ingiusto: “Uno si comporta male tutta la vita, poi basta una lacrimuccia e tutto è cancellato? Una confessione all’ultimo minuto e via, tutti dentro, ma che giustizia è?”. Insomma, questo “al-di-là” sembra piuttosto un “al-di-più”, qualcosa che non entra nelle nostre categorie. Ed è proprio così. Provo a spiegare ai ragazzi che la “vita eterna” non è quella che inizia “dopo”, proprio perchè, in quanto eterna questa vita non inizia nemmeno, ma è, sempre. E’ quel “di più”, quella pienezza di cui, qui, ora, ogni giorno, avvertiamo la mancanza, per cui ci struggiamo di desiderio, quella gioia che ci attira e che proviene da fuori, da ciò che chiamiamo il futuro, ma che si trova anche prima di noi, alla nostra radice. E’ Dio che ci ha creati e che ci chiama a sé, con la sua luce che filtra dappertutto nella nostra vita, e sembra provenire dal “dopo”, come aveva colto, inconsapevolmente, Giacomo qualche giorno fa quando aveva detto che “la morte non è nulla, perchè dopo non esiste nulla”, come a dire che qualcosa assume consistenza e significato da quello che avviene dopo: la soluzione finale del film giallo getta una luce retrospettiva su tutta la storia, dandogli senso. Forse per questo la morte di un bambino ci strugge più di quella di un vecchio: un bambino è “tutto futuro” ed è da quel futuro che riceve significato. E’ la speranza la nostra condizione più autentica.
Claudio Baglioni, reduce dall’incontro degli artisti del 21 novembre 2009 con Benedetto XVI, aveva scritto un bel pezzo sull’Osservatore Romano in cui diceva che gli uomini in questa vita si trovano come in una stanza buia con una porta da cui filtra un esile fascio di luce che proviene dalla camera attigua. Gli artisti sono quelle persone che si trovano più vicini alla porta e avvertono prima degli altri quella luce che provano a comunicare. Di nuovo l’arte, la bellezza, si ritorna sempre lì, anche attraverso la musica popolare e quelle che (non) “sono solo canzonette”. E l’inferno e il paradiso sono proprio lì, ben piazzati nell’immaginario più semplice, popolare, anche dei ragazzi più smaliziati e sofisticati di questa prima decade dell’iper-tecnologico terzo millennio.
(Il presente articolo è apparso sulla rivista Parole Perdute di Avvenire il 5 marzo 2014)