A proposito degli Hobbit

A proposito degli Hobbit di Andrea MondaEsce per Rubbettino “A proposito degli hobbit”, ebook di Andrea Monda in cui si analizza la figura dei coraggiosi eroi tolkeniani

È ancora viva l’eco planetaria suscitata dalla proiezione nelle sale del primo episodio del colossal Lo Hobbit diretto da Peter Jackson tratto dall’omonimo romanzo di John Ronald Reuel Tolkien.
Ma chi sono davvero questi timidi abitanti della Terra di Mezzo? Qual è la carica simbolica di questo racconto?
A svelarcelo è Andrea Monda, già autore per Rubbettino del volume L’anello e la croce. Il significato teologico del Signore degli Anelli che in questo nuovo libro, che riprende in parte il precedente, si sofferma in particolare proprio sugli hobbit, la genia cui Frodo Baggins, il protagonista del romanzo di Tolkien, appartiene.
Secondo Monda gli hobbit rappresentano in pieno gli “humiles” (“humus” peraltro in latino significa “terra, suolo”, ed è proprio nei recessi del suolo che quale vivono gli hobbit) che nel cantico del Magnificat riportato dal Vangelo di Luca vengono esaltati. Gli hobbit sono “bassi” (in ebraico “shaphal”, letteralmente basso, è il termine usato per indicare i “poveri” in spirito delle beatitudini), sono semplici, puri di cuore, contrapposti invece a un mondo abitato da “orgogliosi” da “potenti”, da Sauron a Saruman, a Denethor a Boromir.
Il leit-motiv del libro è peraltro quello che i piccoli diventano protagonisti. Come afferma Elrond al termine della convocazione nella sua reggia-santuario:

“Né la forza né la saggezza ci condurrebbe lontano; questo è un cammino che i deboli possono intraprendere con la medesima speranza dei forti. Eppure tale è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo, che sono spesso le piccole mani ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove… È giunta l’ora del popolo della Contea, ed esso si leva dai campi silenziosi e tranquilli per scuotere le torri ed i consigli dei grandi!”

Come non leggervi le parole evangeliche riportate da Matteo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”?

Il libro di Monda si rivela insomma come una sorta di vivace mappa ermeneutica per viaggiare nella Terra di Mezzo e, dopo aver goduto della straordinaria capacità immaginifica del suo autore, apprezzarne la ricca simbologia.

L’ebook è acquistabile su tutti gli store on line (bookrepublic, IBS, Amazon ecc.)

Andare (e tornare)

Un antichissimo detto africano recita: “Nel tempo in cui Dio creò tutte le cose, il sole creò. Il sole nasce, muore e ritorna. Le stelle creò: le stelle nascono, muoiono e ritornano. L’uomo creò. L’uomo nasce, muore e non ritorna più.

Bellissimo, ci ricorda che l’uomo non vive nella Natura ma nella Storia. Al di là dei significati religiosi (pensate alla differenza tra reincarnazione e resurrezione), mi colpisce in effetti come questo detto segni la differenza tra Natura e Storia. L’arte e la letteratura non possono fare a meno della prima ma si dirigono e si accampano necessariamente nella seconda. L’uomo non ritorna, la storia non si ripete, come dice con la sua lieve acutezza la Szymborska nella poesia Nulla due volte (eccone giusto un assaggio):

Nulla due volte accade

né accadrà. Per tal ragione

si nasce senza esperienza,

si muore senza assuefazione.

Anche agli alunni più ottusi

della scuola del pianeta

di ripeter non è dato

le stagioni del passato.

Non c’è giorno che ritorni,

non due notti uguali uguali,

né due baci somiglianti,

né due sguardi tali e quali. […]

Per saperne di più leggetevi il mio editoriale su www.bombacarta.com

Le fiabe tra speranza e pericoli

Ho letto e mi fa molto piacere rinviare il lettore all’articolo postato oggi dall’amico Saverio Simonelli sul suo blog “Voci sulla luna” e ancora di più attendo di leggere il suo saggio sulle fiabe dei Fratelli Grimm di imminente uscita. In particolare mi ha colpito l’affermazione di Max Luthi: la “fiaba è l’espressione poetica del fatto che ci si trova in un mondo non privo di senso e al quale possiamo adattarci e viverci anche se non siamo in grado di afferrarlo fino in fondo. Per questo l’eroe viene condotto in salvo attraverso i pericoli.  Anche il lettore allora, immedesimandosi nel personaggio e nelle sue progressive tappe verso il lieto fine, vive una specie di battesimo della propria immaginazione”. Osserva Simonelli:  “La fiaba quindi doveva rappresentare un mondo anarchico, imprevedibile, minaccioso, dove a un certo punto avviene un atto di salvezza. Umana, sgangherata, rabberciata, ottenuta con l’imbroglio o con la santità. Non importa. Ma accadeva. Ed era questo il dato fondamentale.” E invece ancora oggi sul tema delle fiabe ci si attarda su elementi marginali, spesso scabrosi, che rischiano però di sviare e mancare la mira perdendo di vista i dati fondamentali.  In greco questo sbagliare la mira si dice “amartia”, cioè “peccato”.

vedi a: http://vocisullaluna.wordpress.com/2012/11/05/i-grimm-e-le-fiabe-ormai-e-una-battaglia-cutlurale/

Flannery, l’immoralista cattolica

Secondo padre Michael P.Gallagher, decano emerito di teologia fondamentale all’Università Gregoriana, la scrittrice cattolica americana Flannery O’Connor è una “esploratrice religiosa”. Nel suo ultimo saggio pubblicato qualche settimana fa in Inghilterra, colloca la O’Connor nella “top ten della fede”: Faith Maps: ten religious explorers from Newman to Joseph Ratzinger. La scrittrice è in ottima compagnia: oltre a Newman e a Ratzinger, tra i dieci esploratori ci sono nomi altisonanti come quelli di Maurice Blondel e di Von Balthasar, di Bernard Lonergan e del filosofo canadese Charles Taylor (l’unico vivente insieme all’italiano Pierangelo Sequeri). Alla fine di giugno è uscito in Italia per i tipi della casa editrice cattolica Ancora, il primo libro interamente dedicato alla O’Connor, un agile ma acuto saggio critico scritto da Elena Buia Rutt (giornalista laureata in filosofia con una tesi sulla scrittrice americana): Flannery O’Connor, il mistero e la scrittura, con prefazione del padre gesuita Antonio Spadaro, scrittore de La Civiltà Cattolica e autore di diversi lunghi articoli sulla spiritualità della narrativa o’connoriana. Infine: nel prossimo mese di agosto al Meeting di Comunione e Liberazione si terrà una mostra-evento per presentare questa singolare figura di narratrice che si dichiarava scrittrice “non sebbene, ma proprio in quanto cattolica”.  Continua a leggere

Un leone in Vaticano

(il presente articolo è apparso il 21 marzo 2006 suIl Foglio)

Come ogni anno anche quest’anno si è svolta in Vaticano l’assemblea plenaria del pontificio consiglio delle Comunicazioni sociali, dal 13 al 18 marzo. All’interno della manifestazione una giornata è sempre dedicata al cinema e viene coronata dalla visione di un film nella sala privata del Palazzo San Carlo, sede del consiglio. E’ la sala in cui è entrato più volte da spettatore di film Papa Giovanni Paolo II. Giovedì scorso, ho partecipato anch’io alla giornata e alla visione del film scelto per quest’anno e che sono stato invitato a presentare: “Le cronache di Narnia” tratto dall’omonima saga fantasy dello scrittore inglese C. S. Lewis. Mi sembra una scelta significativa, per questo ne scrivo. L’invito era giustificato da un recente saggio sullo scrittore e il suo bestseller, da me realizzato insieme a Paolo Gulisano, per le edizioni SanPaolo. Il pubblico era numeroso e ricco di cardinali (ne ho contati almeno quattro: Lopez Rodriguez, Vlk, Agrè e Backis) vescovi e prelati. Il Papa non c’era, ma non aveva certo bisogno di vedere questo film per conoscere e apprezzare Lewis e mi sono sorpreso io stesso del fatto di essermi trovato quasi costretto, nelle poche parole introduttive, a citare per due volte l’enciclica “Deus Caritas est”. Quando il Papa afferma che quello di cui l’uomo ha bisogno è “un cuore che vede” (n. 31) coglie una delle profonde “morali” della favola raccontata da Lewis. Nel romanzo e nel film noi vediamo una bambina, Lucy (cioè “luce”) che, attraverso un armadio, entra in un mondo apparentemente diverso ma che poi si scopre essere semplicemente il nostro ma a un grado superiore di intensità e profondità. Lucy lascia l’Inghilterra dilaniata dalla Seconda guerra mondiale per entrare in Narnia, che è anch’essa un mondo in guerra e il passaggio attraverso l’armadio sta a significare che è nella quotidianità più comune (un armadio chi lo nota?) che si cela la meraviglia e il mistero, dell’esistente. Non serve cercalo, basta vederlo, saperlo vedere. Basta avere un cuore che vede, un cuore semplice come quello di un bambino. I bambini sono naturalmente fantasiosi e aperti allo stupore, capaci cioè di vedere il mondo ogni volta come se fosse la prima volta; in questo senso la fantasia, parola che deriva dal greco “fos”, luce, non è quindi un’evasione alienante ma una visione più profonda e intensa della realtà. La seconda citazione dall’enciclica che mi è venuta spontanea nel presentare questo film è la frase di Sant’Agostino a sua volta ripresa da Benedetto XVI: “Si comprehendis, non est Deus”, “se lo comprendi non è Dio”. E’ l’idea che soggiace all’invenzione del personaggio del leone Aslan, protagonista assoluto dell’intera saga di Lewis. Aslan, in turco “leone”, è figura Christi (muore e risorge per la redenzione di Narnia e il perdono di Edmund) ma è anche una formidabile immagine di Dio. Il leone è l’animale per eccellenza non addomesticabile; Aslan non è mai “a disposizione”, non è mai sotto il controllo di qualcuno; è lui che sceglie di darsi se e quando vuole. Simbolo della grazia che si può solo ricevere, non acquisire, Aslan sceglierà di donarsi e di morire (in una scena ritagliata su quella della passione di Cristo) in riscatto per il bambino “peccatore” Edmund. Dio, proprio come un leone, non lo puoi “comprendere”, non lo puoi bloccare, ingabbiare in un’idea, come Aslan egli irrompe nella vita degli uomini (come racconta Lewis nei suoi testi autobiografici) e appare e sta dove meno te lo aspetti; non è mai fisso in un posto. Cristo, proprio come Aslan, sceglie la strada paradossale della morte e del sacrificio rivelando così il volto più autentico di Dio, quello dell’amore. Solo allora Dio lo puoi trovare, fisso, in un luogo e quel luogo è la croce, lì Dio è croci-fisso. E mentre dicevo queste parole il mio pensiero andava all’ultimo film che prima di questo era stato visto, alla presenza di Giovanni Paolo II: “The Passion” di Gibson. L’ultimo film di Wojtyla e il primo di Ratzinger sono film “vicini” (entrambi hanno al centro il mistero pasquale) ma diversi per l’approccio: più scolpito nella roccia e fisico il primo e più raffinato, “intellettuale” il secondo, una diversità che sembra rispecchiare quella dei due Papi. Continuità e discontinuità. Il Papa polacco, nel pieno dell’autunno del suo pontificato, un autunno di sofferenza e dolore, quasi si specchiava nello “spettacolo” dell’Uomo dei dolori in tutta la sua crudezza. Oggi, sotto il Papa tedesco, un film che racconta la rinascita di un mondo ferito, che riemerge, grazie al sacrificio di Dio, da un inverno rigido come la morte, che sembrava senza fine e “senza Natale” come dice il fauno Tumnus alla bambina Lucy, “figlia di Eva”. Sarà la fede di Lucy, insieme all’agape di Aslan a trionfare sulla magia della Strega Bianca perché esiste “una magia più grande” e questa magia “caritas est”.