(Questo articolo è apparso su Il Foglio il 29/06/2006, lo ripubblico in attesa di ritornare su Dylan e sulla sua Tempest).
Siamo ancora in piena Dylan-mania. Non c’è niente da fare: circa ogni dieci anni, ciclicamente, rispunta fuori l’ormai vecchio menestrello del Minnesota (sessantacinque anni compiuti il 24 maggio scorso) e diventa il centro di tutto quello che si muove nell’universo della musica leggera, e oltre. Dopo essere sopravvissuto agli anni Sessanta che lo hanno consacrato come “poeta” del rock, ecco a metà dei Settanta il Dylan gipsy che con la sua carovana sgangherata di gitani viaggia per l’America cantando per la libertà del pugile di colore Rubin Hurricane Cartes, poi il Dylan cristiano, che ha gettato nello sconcerto (quasi) tutti, poi, a metà degli anni Ottanta, di nuovo il Dylan arrabbiato rockettaro che si dichiara “Jokerman”, buffone e infine il redivivo che ogni tanto emerge dal suo neverending-tour con perle ancora da offrire come “Time out of mind”, un disco che nel 1997 vince pure diversi Grammy Awards. A metà degli anni Dieci del terzo millennio abbiamo il Dylan che sbanca al cinema (“No Direction Home”, splendido documentario di Martin Scorsese e “I’m not there”, film biografico di Todd Haynes con sette attori che interpreteranno Dylan, tra cui Richard Gere e Cate Blanchett), a teatro (a Broadway in un musical in grande stile di Twyla Tharp intitolato “The times they are a-changin’”), e infine il nuovo disco, Modern Times e, per l’Italia, il libro dei testi, tradotti, finalmente, tutti.
Il titolo chapliniano del quarantaquattresimo album della più prolifica rock star non sorprende più di tanto: Dylan, anche fisicamente, ha molto di Chaplin, lo aveva sin dall’inizio, quando era un mix tra Charlot e James Dean, ma pian piano (anche per l’accumularsi delle rughe del tempo), il pubblico dei “dilaniati” si è reso conto che il suo pupillo, oltre la seriosità con cui spesso diventa argomento di chi pensa di averlo capito, possiede in effetti un enorme potenziale comico. E’ un po’ come Fellini, altro artista spesso equivocato, frainteso a volte anche da se stesso, al punto che il regista riminese fu costretto durante le riprese di Otto e mezzo ad appiccicare sulla cinepresa un biglietto con sopra scritto: “Ricordati che è un film comico”. Fellini, come Dylan, sono due artisti molto divertenti, a modo loro due geni comici. Chi negli ultimi dieci anni è andato a vedere i concerti di Dylan (che periodicamente torna in Italia, anche quest’estate sarà a Roma e a Paestum) si è reso conto di quanto il più delle volte lo show sia divertito e divertente. Sul palco, questo artista che oltre a cantare rimane quasi del tutto muto, si muove e si comporta in un modo che è indefinibile ma sicuramente comico, quasi una marionetta che sgambetti convulsamente e rida improvvisamente per qualche segreto che coglie solo lui. L’ironia e l’umorismo hanno sempre innervato la sua produzione, ma negli ultimi anni, sotto certi aspetti, questa tendenza si è acuita, anche a livello fisico. Quando, premiato con l’Oscar per la migliore canzone dell’anno, Dylan si esibì cantando “Things have changed” con tanto di cappello e baffetti, a molti è parso di rivedere il volto del Chaplin anziano, così come nello spot televisivo che Dylan ha girato insieme alla splendida Adriana Lima prestando la sua “Love sick” alle richieste della marca di lingerie femminile “Victoria’s Secrets”(scatenando le ire dei suoi fan più intellettuali e, quindi, più conservatori): il suo incedere, l’abbigliamento e gli sguardi non sono quelli di un attore consumato (non lo sarà mai, nonostante i ripetuti tentativi cinematografici), ma hanno un indiscutibile effetto ironico e comico. Questo quarantaquattresimo album comunque rende già superato l’immane lavoro che Alessandro Carrera, massimo esperto italiano di Dylan, ha compiuto nel tradurre i trecentocinquantacinque testi raccolti nel monumentale volume Bob Dylan. “Lyrics 1962-2001” (1.225 pagine, 60 euro) edito ad aprile da Feltrinelli. Volume “superato” ma davvero ben arrivato, visto che colma un vuoto di oltre vent’anni: le precedenti raccolte italiane dei suoi testi erano ferme al 1985. Un’opera fondamentale, questa di Carrera, che soddisferà il vero fan di Dylan, quello disposto a tirar fuori sessanta euro, quello ben rappresentato dalla battuta che lo stesso Carrera riporta nel suo precedente saggio sul cantautore americano “La voce di Bob Dylan” (Feltrinelli 2001): “Faccia pure quello che vuole, basta che non smetta di cantare, la dannazione di chi ha una voce come la sua è di essere condannato a riempirla di parole”. Ecco infine, con questo libro, le parole di Dylan, quelle che ripete quasi ogni sera, generalmente senza aggiungerne altre, per le poche migliaia di persone che fedelissime accorrono a vederlo un po’ dappertutto in giro per il mondo. Adesso si possono finalmente gustare e comprendere meglio grazie alla bella, precisa, a volte audace traduzione di Carrera sapendo che il modo migliore per farlo è riascoltare le canzoni, cosa che ha fatto lo stesso traduttore durante questa impresa durata circa tre anni. Il problema, anche per la traduzione, è che Dylan è un artista infinito, nel senso che, dice Carrera: “Non esistono canzoni brutte di Dylan ma solo canzoni che ancora non hanno trovato la loro giusta esecuzione (da qui le continue rivisitazioni dal vivo), così come non esistono testi brutti di Dylan; esistono solo quelli finiti e quelli ancora da finire. Il caso più evidente sono i testi dei Basement Tapes. Ci sono canzoni insomma che sono ancora “cantieri aperti”, quindi è davvero arduo definirne una traduzione”.
Scopriamo quindi che le trecenticinquantacinque canzoni non sono tutte le canzoni di Dylan (“ce ne sarebbero almeno altre quaranta, scritte insieme ad altri, sparse qua e là… forse non lo sa nemmeno Dylan”) e altre sono quindi in arrivo ad indicare nel carattere dell’incompletezza forse la cifra dell’intera opera di Dylan, un enorme work in progress che va letto come un’unica, intera e infinita opera, secondo quanto già indicato da Carrera nel saggio del 2001: “Come nel resoconto di un sogno, come in un delirio, come in Finnegans Wake, solo se consideriamo l’opera di Dylan un unico esteso monologo, lentamente tutto vi prende senso. Ma non un senso. Molti sensi che convivono incompatibili, e dei quali l’autore non ha la chiave più di noi che ci ostiniamo a decifrarli”.
Prolificità e incompletezza; due facce della stessa medaglia, due aspetti fondamentali per comprendere il mosaico-Dylan. Il fatto poi che Dylan continui a suonare (è dal 1988 che il nostro viaggia sulla media di almeno cento concerti all’anno) e a comporre canzoni lo rende assimilabile ad un altro genio del cinema, Woody Allen, non solo perché l’ultimo, anzi il penultimo, disco di Dylan, Love & Theft, amore e furto, già dal titolo è un album “alleniano” (e poi nell’ascolto subito richiama le musichette che aprono, accompagnano e chiudono le commedie di Allen: una specie di combinazione di swing, standards, parlor songs con un tocco di country e canzoni “da vaudeville”), ma anche perché tra i due non c’è ovviamente solo la radice ebraica ma anche questa iper-prolificità insieme ad uno sanissimo anti-intellettualismo, molto americano e che spesso, in entrambi i casi, non è stato colto da questa parte dell’oceano. Allen e Dylan, ognuno nel proprio campo, a dispetto dell’età, sono forse gli artisti più prolifici oggi in attività. Questa iperproduttività, che spesso penalizza la qualità dei risultati (è inutile dire che il peggior film di Allen, come la peggiore canzone di Dylan, sono comunque prodotti bellissimi in relazione a quanto si vede e si sente in giro), ma che fa la gioia dei fan irriducibili dei due grandi artisti, induce però uno strisciante sospetto che si consolida se poi si va a vedere la loro a dir poco caotica vita privata e familiare: il sospetto che si tratti di due artisti disperati la cui disperazione invece di paralizzare, stimola la creatività. Scrivere e suonare o filmare diventano così una forma di esorcismo contro l’angoscia e il vuoto di una vita tutta vissuta No Direction Home.