Il 22 aprile Giorgio Napolitano diventa il primo presidente della Repubblica ri-eletto al Quirinale e, insediandosi, fa un discorso, già definito “storico”, che sembra essere una rivendicazione della bellezza e della necessità della politica, contro i venti dell’anti-politica che soffiano ormai non solo fuori ma anche dentro il Palazzo. Ecco il passaggio più significato di quel discorso:
“Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti. Lo dicevo già sette anni fa in quest’aula, nella medesima occasione di oggi, auspicando che fosse finalmente vicino “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza” : che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità. Altrimenti, si dovrebbe prendere atto dell’ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata“.
Un grido accorato contro l’immaturità dell’attuale classe politica. Viene in mente la famosa definizione di uno dei protagonisti della scena politica di questi 20 anni, Romano Prodi che, come è noto, si dichiarò “cattolico adulto” per rispondere piccato all’invito del card.Ruini alle soglie del referendum sulla fecondazione assistita. Ecco, viene in mente quella frase e un pensiero: forse Prodi e tanti altri personaggi della scena politica italiana contemporanea possono dirsi cattolici, ma non possono dirsi adulti. Dov’è infatti quella maturità invocata da Napolitano? Il percorso, a tratti ridicolo se non grottesco, degli ultimi mesi in cui da un governo Napolitano-Monti siamo passati ad un governo Napolitano-Letta senza alcuna soluzione di continuità (nonostante un’elezione politica e l’elezione del presidente della Repubblica), ha denotato per l’ennesima volta l’immaturità della classe politica emersa nella cosiddetta Seconda Repubblica, e le nuove leve che stanno emergendo, Movimento 5 Stelle in primis, sembrano fare dell’immaturità una bandiera, secondo la logica della “fantasia al potere”, evidenziando come siamo ancora in pieno clima sessantottino, forse l’unico paese dove il ’68 non è stato superato, non si è concluso ma dura da oltre 40 anni. Non è un caso che il vero leader vincitore di tutti questi anni sia Berlusconi, il più “sessantottino” di tutti (e rinvio al breve saggio di Mario Perniola: “Berlusconi, ovvero il ’68 realizzato”), che fuoriesce dalla stagione passata sotto il nome di “Mani pulite”.
Il ’68 e gli strascichi che ancora oggi fanno danni, sono da questo punto di vista, un’altra versione dell’eresia catara, dell’angelismo, l’eresia della purezza e, alla fine, del manicheismo moralistico che ancora è diffuso nella politica e nella società italiana.
Diventare adulti, maturi, in una parola, “concreti”, perchè è sempre l’astrazione il vero nemico, anche per i cattolici che da sempre sanno che la vera lotta è quella tra la fede e l’ideologia (che è sempre astrazione). Lo aveva ben presente il cardinale Joseph Ratzinger che si rivolgeva così ai politici tedeschi nel lontano 1981:
«Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo: limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra pragmatismo da meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica.»
Un testo che bisognerebbe ricordare a memoria, da cui ripartire per ridare una speranza a questo nostro paese di bambini, cattolici e non, comunque non ancora cresciuti.

C’è uno sfilacciamento, un’ingordigia, un senso stanco e immaturo di onnipotenza, che porta tutti a fare tutto, a oltrepassare ogni limite, a sentirsi “dio” della propria vita. L’unico che va controcorrente, che si muove contro questa marea, questa pandemia che ha contagiato il paese in tutti gli spazi e i luoghi pubblici e privati, è, come al solito, il cattolico. E penso ad una persona in particolare, al Papa. Benedetto XVI non ha sbracato. Ha conservato il senso del limite, si è ricordato che non è Dio. Si è aggrappato all’umiltà, questa virtù impossibile. E Dio lo ha aiutato donandogliela (l’umiltà). Quanto è controtendenza il suo gesto dell’11 febbraio che verrà confermato il 28? Lui è rimasto al suo posto, per il quale ha speso tutto le sue energie, poi si è guardato, acutamente e onestamente, e ha detto la verità: sono vecchio (parola scomparsa dal linguaggio comune, sbracato anch’esso), non posso più essere il Santo Padre, ma posso fare il Santo Nonno, posso ritirarmi per “rimanere nascosto al mondo” ma così facendo essere ancora più presente, con la forza della preghiera, l’unica che mi è rimasta. Ora quindi faccio spazio a uno più vigoroso di me, ad un nuovo Santo Padre. E ha lasciato la poltrona. Quanta laicità, leggerezza, finezza, libertà in questo gesto. Forse la più grande lezione di questo Papa-professore. Se solo fosse ascoltato e imitato, un po’ di più e meno dileggiato.. ma questo dileggio è ancora una volta il segno di quello “sbraco” che affligge ormai da anni il nostro paese.
“Esigiamo compiti più elevati perché non siamo capaci di riconoscere l’elevatezza di quelli che già ci sono assegnati. Cercare di essere gentili e onesti sembra un affare troppo semplice e privo di risonanza per uomini del nostro stampo eroico; piuttosto ci getteremmo in qualcosa di audace, arduo e decisivo: preferiremmo scoprire uno scisma o reprimere un’eresia, tagliarci una mano o mortificare un desiderio. Ma il compito davanti a noi, cioè quello di sopportare la nostra esistenza, richiede una finezza microscopica, e l’eroismo necessario è quello della pazienza. Il nodo gordiano della vita non può essere risolto con un 
Domani il popolo del PD voterà e vincerà Renzi o Bersani. Ma cosa cambia se vince l’uno o l’altro? Proviamo a mettere a fuoco la situazione, sbrogliando una matassa molto complicata; fare previsioni è sempre cosa ardita, nella politica, regno dell’umano, tutto può accadere quando meno te l’aspetti e forse in Italia, terra molto “umana”, ancora di più. Però proviamoci. So che mi farò molto “nemici” scrivendo quello che sto per scrivere, ma proviamoci lo stesso.
Da circa 20 anni vado dicendo in giro che secondo me Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro sono un’unica identica persona. Sono diventati “famosi” appunto 20 anni fa conquistando un successo popolare legato al proprio carisma personale, quasi fisico e, se li guardiamo bene, i due fisicamente si assomigliano (ed entrambi assomigliano al dittatore Mao, ma questo è un’altra storia) nella immediata, schietta e italica volgarità. Attorno al corpo di questi due perfetti italiani si è celebrato il rito dell’adesione incondizionata e del rifiuto violento (pensiamo ad esempio agli articoli a favore di Di Pietro, degni del culto della personalità di fascista memoria, di Bocca) per quasi venti anni. Per un ventennio i due “fenomeni” hanno solleticato la pancia del paese, arringando e soffiando demagogicamente sul fuoco dell’anti-politica; il moralismo qualunquista dei canali Mediaset degli anni ’80 e dei primi anni ’90 ha preparato il terreno per il moralismo popolano del leader dell’IDV. Per un ventennio i due si sono spalleggiati a vicenda, non a caso fu Berlusconi il primo a richiedere l’entrata in politica dell’ex-magistrato (come ministro degli interni, sarebbe stato perfetto da valente ex-sbirro qual’era). Inoltre andavo notando come i due non fossero mai (o quasi) presenti contemporaneamente nello stesso luogo; infine l’effetto psicologico su di me di ogni intervento televisivo dei due personaggi era il medesimo: spingermi a votare a favore dell’altro. Da qui la mia idea che non si trattasse di due ma di un’unica identità.
Alleluia. Lodate il Signore nel suo santuario,