Il (quarto, quinto…) potere è nudo

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Martedì scorso, 29 aprile, durante la trasmissione televisiva Ballarò, è stato intervistato da Giovanni Floris il vescovo Mons.Nunzio Galantino, di recente nominato Segretario Generale della CEI da Papa Francesco e tra le altre cose, con quel candore concretissimo che li contraddistingue (a lui e al Papa), ha espresso un concetto semplicissimo, capace quindi di denudare il re, anche quel re irsuto e ostico rappresentato dalla stampa, dalla televisione e dai mass-media, i cosiddetti quarto e quinto potere. Mons.Galantino ha detto che i politici dovrebbero stare più per la strada, a stretto contatto con la gente del popolo, per sentirli più vicini, farsi sentire più vicini, comprendere meglio le loro esigenze in modo da servirli più convenientemente. E quindi ha rivolto una preghiera a tutti quei giornalisti che sempre si affollano attorno ai politici (ha fatto l’esempio più eclatante, quello di Renzi, il giovane premier italiano) e che proprio facendo così impediscono il contatto tra gli uomini politici e gli uomini del popolo, tra i governanti e i governati.
Mons.Galantino ha colto nel segno, la sua è stata una puntura, una piccola trafittura che infatti ha tolto il fiato per un attimo al loquace conduttore della trasmissione che non ha potuto far altro che sorridere per un secondo, segno che dovrebbe aver capito (il condizionale è d’obbligo, vista la tendenza di Floris a sorridere sempre a tutto e a tutti, forse per il gusto di esibire la smagliante dentatura).   Continua a leggere

L’eccezione democristiana

tocqueville431Sono nato nel 1966 e ho quindi vissuto nel pieno della lunga stagione democristiana per cui sono stato abituato ad alcune modalità, ritmi, riti della politica che però oggi sono del tutto saltati. Cioè, per la nostra generazione la DC e il suo modus era il modus della politica, con il senso alto dell’istituzioni; il mondo della politica era quella cosa lì e non era comprensibile altro, la politica era sempre stata quella cosa lì.
Oggi però è tutto saltato e da 20 anni noi democristiani non ci raccapezziamo. Craxi ha perso ma il craxismo ha vinto. Parlando con l’amico Marco Follini qualche giorno fa mi faceva notare che la DC, che per noi era la “regola”, in realtà è stata una eccezione. Una lunga eccezione, la lunga eccezione italiana. Dovuta senz’altro a tanti fattori storici (la fine del fascismo, la fine della guerra, il rilancio economico..) ma di fatto un’eccezione.  Pochi anni fa ho letto un’intervista di De Mita in cui diceva che “il merito della DC è stato quello di fare di un paese reazionario un paese democratico”. Ha ragione, tanto per cambiare. Cioè: la realtà italiana è quella di un paese populista, tendente al conservatorismo (se non alla reazione), che cerca sempre un’autorità forte a cui delegare tutto.
Il Papa di recente ha chiesto ai vescovi italiani di fare come tutti gli altri vescovi del mondo: eleggersi il proprio presidente (il pres. della CEI, oggi Bagnasco) e invece i vescovi italiani gli hanno risposto che preferiscono conservare lo status quo, e cioè che il presidente della CEI deve essere scelto dal Papa.
L’Italia pre-unitaria, l’Italia monarchica e poi il fascismo, tutta questa lunga storia (che potremmo far risalire su su fino al “panem et circenses” degli antichi romani) ci dice che gli italiani tendono facilmente al populismo. La DC è stata la grande eccezione: ha fatto maturare il Paese abituandolo a scegliere non il leader, non il nome, il “faccione”, ma un partito con un programma, con ideali, visioni di società.. più di 40 anni è durata questa cosa qui, la “grigia” DC che non aveva mai grandi leader che tiranneggiavano dispoticamente dentro il partito o nel paese, ma ora tutto questo è scomparso. Craxi negli anni ’80 ha dato il via e poi negli anni ’90 Berlusconi e tutti gli altri (Casini compreso, nel suo piccolo) hanno rifatto circolare in Italia il virus del “personalismo” in politica. Il risultato è stato che al populismo di Berlusconi, dopo 20 anni di insipienza politica da parte di tutti, si è aggiunto il populismo di Grillo e oggi, in parte, quello di Renzi. Il boom di Grillo ha raddoppiato rispetto a Berlusconi il voto populista (e anti-politico) nel paese e Renzi, al di là della sua storia e delle sue intenzioni, si trova costretto a seguire le stesse modalità populiste e personaliste.
E’ facile prevedere che alle prossime elezioni i voti si divideranno tra: 25% astensione, 25% Berlusconi, 25% Grillo e 25% Renzi. E fa bene quindi Renzi a cercare alleanze, anche con Berlusconi.
Ma il punto che ora mi interessa è questo: l’eccezione democristiana (quel “grigiore” che per noi era la regola) era un’eccezione virtuosa, feconda per la democrazia e la politica, ma è stata solo un’eccezione. Siamo ritornati ad essere italiani. Ovviamente spero che in fondo questa mia analisi sia sbagliata, e attendo smentite.

Dettaglio rivelatore

Marco Travaglio ha dedicato di recente un articolo di strali (altro non sa fare) tutti rivolti contro Giuliano Ferrara, colpevole non solo di non essere d’accordo con lui ma anche di averlo ribattezzato Marco Dettaglio. Tralascio il contenuto dell’articolo (trattasi di fango, come al salito) e mi soffermo su tre espressioni utilizzate, perchè spesso è proprio il dettaglio ad essere rivelatore.

7bastaPrimo dettaglio: il giornalista s’interroga su Ferrara e su “che mestiere farebbe in un paese normale?”. Secondo dettaglio: il giornalista redige una rapida biografia di Ferrara e, con dileggio e disprezzo lo presenta, tra le altre cose, come “funzionario del Pci, consigliere comunale a Torino”, e poi un’altra lunga serie di “qualifiche” tutte presentate con disprezzo massimo, tutte tranne una: “manganellatore di lottatori continui (forse l’attività meno inutile della sua esistenza)”.

Terzo dettaglio: nel finale della sua invettiva, nella foga della vibrante oratoria, Travaglio conclude dicendo che “Ieri questo fenomeno da lunapark, a mezzadria fra mangiafuoco e la donna cannone, ha scritto che “Travaglio è nervoso”, “ha perso le staffe” e financo “le elezioni” (senza essermi mai candidato, diversamente da lui)”.  Continua a leggere

Io vs. Realtà

imagesSecondo Giuliano Ferrara, direttore di questo “social network di carta fatto per pochi intimi che hanno deciso di cercare”, il pre-testo del discorso di Napolitano del 22 aprile scorso è di tipo filosofico e teologico e si può riassumere nell’analisi realizzata dal domenicano Reginald Garrigou-Lagrange negli anni ’40 per cui la Chiesa avrebbe “accettato la proposta che le è stata fatta: quella di sostituire alla definizione tradizionale della verità (adequatio rei et intellectus, come se fosse chimerica, la definizione soggettiva: adequatio realis mentis et vitae. La verità non è più la conformità del giudizio con la realtà extramentale (oggettiva) e le sue leggi immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze e l’azione della vita umana, che si evolve continuamente”.

La scomparsa della realtà, la sua evaporazione a favore della coscienza soggettiva, sarebbe la causa di tutto il crollo della metafisica e dell’etica che negli ultimi 50 anni ha investito l’Occidente fino alla crisi della politica a cui la scossa racchiusa nel discorso di Napolitano cerca di reagire. Da qui l’invito indicato nell’occhiello dell’articolo “Bisogna tornare alla realtà”, che non si può lasciare cadere, proprio perchè si fa parte di quei pochi intimi affezionati all’idea di cercare. E così, evidenziatore alla mano, diverse cose hanno attirato la mia attenzione, a partire dalla critica al Concilio Vaticano II che avrebbe accettato la proposta del mondo che paventava Garrigou-Lagrange ed è infatti negli anni del Concilio che si scatena la crisi: “Sono gli anni ’60, e in qualche decennio viene giù tutto, il mondo gira su sé stesso…”.

WolfeBWNon sono d’accordo con la critica al Concilio ma è pur vero che ha ragione Tom Wolfe quando nel 1976 pubblica il suo saggio Il decennio dell’Io (di recente pubblicato in Italia da Castelvecchi), un testo molto interessante per tutta la storia della società occidentale contemporanea, figlia anche di quella decade (1966-1976) che, secondo lo scrittore americano, ha visto la definitiva affermazione dell’“argomento più affascinante di questa terra: l’Io”. Per dirla in termini domenicani (Garrigou-Lagrange o, meglio ancora, Tommaso d’Aquino) la definizione tradizionale della verità lascia il posto a quella soggettiva, nasce quella “cosa troppo invadente che si chiama “io” come diceva San Tommaso Moro. E’ anche colpa del benessere e del boom dei decenni precedenti, osserva Wolfe, per cui l’Io può nascere perchè l’economia ha creato l’homo novus, immaginato da Marx e dal comunismo, “il primo uomo comune della storia del mondo con la tanta vagheggiata combinazione di denaro, libertà e tempo libero”, un uomo nuovo ma con tanti vizi antichi, primo fra tutti un individualismo sfrenato. Il vizio dell’ipertrofia dell’Io è antico, e prima ancora della Nuova Teologia del ‘900, trova le sue radici nella svolta antropologica del Rinascimento, da Lutero a Cartesio con il suo “cogito ergo sum”, la coscienza prima della realtà. Non è un caso che un teologo (forse “nuovo” per Garrigou-Lagrange), il gesuita tedesco Karl Rahner, coglie nella svolta cartesiana l’avvio di quel piano inclinato che porterà a tutto quel crollo che l’articolo del direttore indica e risponde al filosofo francese rovesciandone l’assunto in “cogitor ergo sum”: sono pensato dunque sono. Per il cristianesimo la vita non è posta dall’uomo ma è ris-posta dell’uomo all’iniziativa di Dio, creatore della realtà.

L’approccio viziato, individualistico e adolescenziale dell’uomo moderno e contemporaneo trova nella stagione della Rete il suo habitat naturale e il rischio è quello della perdita del contatto con la realtà, ma il discorso di Napolitano evidenzia in controluce un’altra “eresia” contemporanea, collegata con lo smarrimento del senso della realtà, l’eresia catara della purezza che disprezza il corpo, la fisicità e ancora di più la politica intesa tout-court come “corruzione”.

A questi bambini angelici il presidente rieletto ha tirato le orecchie invitandoli a crescere e ad abbandonare quella “sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse”, un orrore che per Napolitano “è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche”. La purezza è luciferina, perchè ancora una volta rivela l’idea che la vita è qualcosa che l’uomo pone e di cui alla fine dispone.

cartesio2Il decennio dell’Io che per l’Italia è iniziato nel ’68 e sembra ancora non terminato non è altro che un’altra versione dell’eresia catara che produce quel manicheismo moralistico mai estirpato dalla lotta politica e dalla società italiana. Qui Napolitano nel suo invito alla realtà e alla maturità, cioè alla concretezza, si rifà inconsapevolmente ad un altro grande teologo del ‘900, anche lui tedesco e “nuovo”, Joseph Ratzinger che si rivolgeva così ai politici tedeschi nel lontano 1981: «Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo: limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra pragmatismo da meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica.» Tutto questo spessore di pensiero il mondo della piazza in piena crisi adolescenziale lo liquida con una parola biascicata con disprezzo: inciucio.

narcisoE l’ultimo bersaglio del discorso del teologo Napolitano è la dicotomia palazzo-piazza che il direttore Ferrara coglie nella sua essenza quando parla della “filosofia della Rete, dell’immateriale, dell’immaginario, dell’intimo messo a nudo”. Si sente la lezione di un benedettino come Elmar Salmann che qualche giorno fa sempre su questo giornale, intervistato su Papa Francesco da Marco Burini, metteva in guarda dall’ultima idolatria del mondo contemporaneo occidentale: la spietatezza disumana del politically correct. Osserva Salmann che: “forse ci si comincia a interessare troppo della personalità e della biografia del singolo Papa o vescovo. E’ un biografismo insalubre che porta al culto della personalità ma anche a una sua rapida denigrazione; soprattutto in un’epoca che conosce la proscrizione facile ma non più il diritto di prescrizione, cioè l’indulgenza del dimenticare, del flusso dei tempi, del rivalutare positivamente l’evolversi di una persona. Invece oggi tutto viene scoperto e messo a nudo, anche quando i tempi, le circostanze e la persona stessa si sono trasformate. Un che di pudore, magnanimità, equo giudizio sarebbero auspicabili nel nostro giudicare le persone pubbliche” e conclude: “L’enfasi psicoanalitica, invece, ci ha portato a un biografismo che non perdona nulla, a una colpevolizzazione infinita. D’altronde siamo nella società del politically correct e la comunicazione è l’unico feticcio religioso rimasto. Che però sta mangiando i suoi figli, come ogni rivoluzione…”.

Per tempi e uomini nuovi urgono teologi nuovi, domenicani, gesuiti o benedettini non importa, e anche se il giornalismo vince la sua pigrizia e continua a cercare, va bene uguale: tutto può servire per mettere in guardia gli uomini nuovi da errori e vizi antichi come l’ideologia-idolatria che, come sempre, è un lupo famelico e autodistruttivo, per lo più travestito da agnello.

(il presente articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2013 su Il Foglio)

Sullo spirito del tempo

napoleoneBenedetto XVI, Pio XII e lo spirito del tempo

Quando Pio XII si rese conto che denunciare pubblicamente la persecuzioni razziali dei nazisti sarebbe stato un gesto che avrebbe aggravato le condizioni dei perseguitati, scelse di operare silenziosamente, di condannare tali persecuzioni anche in discorsi e messaggi ma sempre in modo implicito e, soprattutto, di salvare più vite possibili dalla furia sterminatrice che soffiava negli anni ’40 in Europa. Si rese conto di qual era il rischio che correva (“verrò criticato per questo mio comportamento”), ma lo affrontò coraggiosamente. Aveva visto lungo, nel senso che ancora oggi sulla sua figura pende un’ombra per cui quel coraggio di andare contro la propria reputazione non viene avvertito e al suo posto è invece percepito con acuta sensibilità l’onta della viltà dei suoi “silenzi”, che per alcuni addirittura sarebbero prova di una complicità con il regime nazista.

Mi è venuto in mente Pio XII pensando al gesto dell’11 febbraio 2013 compiuto da un Papa quanto mai distante da Pacelli, Benedetto XVI. Anche qui: coraggio o viltà? Joseph Ratzinger, innovando contro una tradizione di venti secoli, ha rinunciato al ministero petrino, al governo attivo della Chiesa, passando il testimone al suo successore che si trova ora “in con-dominio” con lui, due Papi, che vivono a pochi metri uno dall’altro, di cui uno recluso in preghiera e l’altro impegnato a governare. Un gesto rivoluzionario e scandaloso che ha messo in crisi proprio il popolo dei cristiani, quel gregge affidato alla cura e alla guida del Pastore della Chiesa Universale.

E’ il suo gesto segno di coraggio, di libertà interiore, di somma umiltà, di adesione alla missione della Chiesa al punto di schiacciare il proprio ego (e la propria reputazione) oppure è il gesto di un uomo che si è solo stancato e non ha avuto più la forza di credere in Dio che lo aveva scelto come vicario di Cristo? E’ un atto di grande fede oppure di uno che ha cominciato a vivere etsi Deus non daretur? Il Papa da tutti visto come l’arcigno nemico del relativismo e del nichilismo contemporaneo, non ha forse così relativizzato e annientato la figura del Papa e minato alle radici la fede stessa nell’opera di Dio sulla e attraverso la Chiesa? Ai posteri, diceva Manzoni, l’ardua sentenza; di certo Ratzinger si è trovato come Pacelli a dover operare una scelta “grave” ed entrambi hanno deciso di anteporre ciò che ritenevano giusto al proprio egoistico “utile”. Anche su Ratzinger già pesa una macchia per cui quel coraggio di andare contro la propria reputazione e venti secoli di tradizione non viene avvertito come tale e al suo posto è invece percepito con acuta sensibilità da alcuni, soprattutto in seno al cattolicesimo, l’onta della viltà per la sua fuga dalla responsabilità, l’essere anzitempo “sceso dalla croce”. La sua memoria probabilmente rimarrà schiacciata tra quella del predecessore e quella del successore, che, paradossalmente, sono entrambi figure che senza quella di Joseph Ratzinger non avrebbero potuto esprimersi e forse nemmeno sussistere, ma, si sa, a volte il destino è proprio “cinico e baro” e alcune persone si trovano veramente a vivere, come direbbe Tolkien, “situazioni sacrificali”.

E_in_mezzo_a_San_Lorenzo_spalancò_le_aliMa torniamo a Pio XII e alla sua scelta di silente operosità. Una scelta che mi ha fatto venire in mente l’affermazione di Aldo Moro per cui “in politica i problemi non si denunciano, ma si affrontano, cercando di risolverli”. E’ una frase che è tanto politica da risultare oggi antipolitica, cioè coglie un’aspetto essenziale dell’agire politico, talmente essenziale che in questi tempi in cui la politica è praticamente assente e bandita, risulta essere scandalosa, inaccettabile. Ai nostri giorni infatti tutto è denuncia, mentre i problemi restano lì, irrisolti e inevitabilmente ingranditi, anzi ingigantiti. Oggi ci si ferma alla denuncia, un atto che è diventato quasi compulsivo, frutto di una coazione a ripetere, per cui tutto viene denunciato, pubblicato, gridato perchè l’indignazione e la rabbia sono i sentimenti dominanti del nostro tempo, che devono trovare sfogo e soddisfazione.

Il punto, come ha colto con solita vis umoristica il cardinale Biffi, è che non è vero che si è perso il senso del peccato, come tanti bravi cristiani lamentano, ma si è perso il senso del peccato proprio, perchè invece è quanto mai vivo il senso del peccato altrui, come dimostra proprio questa “cultura” della denuncia e dell’indignazione. E accanto a Biffi ci metterei un altro italiano verace (quando italiano era sinonimo di simpatico), Vittorio De Sica, che saggiamente osservava come: “L’indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia”.

Vittorio-DeSica_672-458_resizeOggi si è perso molto in termini di “simpatia”. E quindi di buon umore e anche di umorismo. I comici non fanno più ridere ma si impancano a moralizzatori, seminando astio se non odio sociale. Mi ha colpito pochi giorni fa un amico, che stimo come persona di notevole cultura e anche sensibilità artistica, che mi raccontava che la sera lui si vede con i suoi figli programmi come Striscia la notizia e Le jene (e, aggiungo io, anche quelli sulla Rai di Santoro e Travaglio, sbiaditi cloni dei suddetti programmi di Mediaset) in modo da poter comprendere lo spirito del tempo che stiamo vivendo e potersi muovere nel mondo. Lo spirito del tempo. Il 14 ottobre 1806 Hegel esclama: “Oggi ho visto lo spirito del mondo entrare a cavallo a Jena”; si riferiva a Napoleone che quel giorno entrava nella città tedesca dopo la grande vittoria militare. Da Napoleone a Ezio Greggio; qualcosa è cambiato.

Però forse è proprio questo lo spirito del tempo che soffia oggi e pochi si muovono contro questa corrente impetuosa, a parte qualche vescovo di Roma, come Pio XII e Benedetto XVI, due Papi oggi non molto “simpatici”, ma entrambi “vivi” secondo la definizione di Chesterton, fine umorista e apologeta del cattolicesimo: “Una cosa morta può andare con la corrente, ma solo una cosa viva può andarvi contro”.

(il presente articolo, qui nella sua forma integrale, è apparso il 27 aprile 2013 su Il Foglio).