L’uomo, colui che desidera

Timon__Pumba_and_Simba_by_Elendar89Io penso che siamo fatti per addormentarci sulla schiena guardando le stelle (G.Flaubert)
L’essenza dell’uomo è il desiderio (B.Spinoza)

Cosa cercano questi ragazzi? Il cuore di un adolescente del 2014 verso cosa tende? A volte capita, durante la lezione di usare verbi come bramare o anelare che provengono dal testo biblico, parole di cui i ragazzi ignorano il significato che pure è così vicino al loro cuore. La parola di Dio rivela l’uomo all’uomo, così ho appreso nei miei anni di studio, ma ora questo specchio che ci permette di scrutare dentro le nostre profondità è lontano dallo sguardo delle giovani generazioni, un testo antico e oscuro, di cui non hanno più familiarità.
Il mio deve essere un lavoro di riavvicinamento, di progressiva approssimazione, il che non esclude dei salti in avanti anche notevoli, come quando ho citato in classe una frase di quelle complicate, di Simone Weil, per cui «La Bibbia non è un libro di teologia scritto dagli uomini, ma un libro di antropologia scritto da Dio», lasciando interdetti la maggior parte dei miei interlocutori. Ho spiegato loro che chi ha scritto la Sacra Scrittura è qualcuno che conosce molto bene il cuore dell’uomo e usa una parola che «è viva ed energica e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino all’intimo dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12), una frase che colpisce senza dubbio più della battuta della Weil.
Sta di fatto che l’Autore della “più grande storia mai raccontata” ha ben preciso il fatto che l’essere umano è un animale desiderante, che vive sotto le stelle ma ne sente la mancanza (de-sidera), le osserva perché egli è homo erectus, può guardare in alto, verso cui inevitabilmente tende. Mi aiuta, specie con gli studenti più piccoli, una scena del famoso film della Disney “Il re leone”: il protagonista, il giovane Simba, è steso per terra con i suoi due amici, Pumba e Timon a pancia all’aria e ammirano la volta stellata, e questo basta per fare nascere in loro grandi domande (che poi sono le stesse del pastore errante nell’Asia di Leopardi): «Che cosa sono quelle luci che brillano?». I tre animali, cioè noi umani, offrono le risposte classiche dell’arte, della scienza e della religione: per Timon si tratta di lucciole rimaste impigliate nella volta celeste (la risposta mitico-poetica), per Pumba sono masse gassose che orbitano nello spazio (l’arida risposta scientifica), mentre Simba dice che qualcuno una volta gli ha detto che quelle luci sono gli antenati che ci guardano dall’alto. Arte e scienza in fondo sono molto simili: in tutti e due i casi è l’uomo che osserva; nella religione la prospettiva si rovescia, qui è l’uomo che è osservato, guardato, protetto, amato. La tensione verso le stelle, il de-siderio, è nostalgia di casa.

(questo articolo è apparso il 6 agosto 2014 su Avvenire)

Puntare in alto

Il Profeta Geremia - MichelangeloPerché il ragazzo del 2014 ripete, per ogni occasione, che lui “non ce la può fare”? Chiedo ragione di questa fragilità e la risposta si trova nella paura; è dalla paura delle delusioni che nasce questo “dis-impegno”, questo non crederci troppo in tutto quello che si vive, un volersi quindi porre obiettivi molto bassi, volare più raso terra possibile.
Simona, diciott’anni, avendo davanti a sé il “mostro” dell’esame di maturità, me lo aveva spiegato nel modo più concreto e pragmatico, possibile: «Non ci si deve montare troppo la testa, altrimenti la delusione sarà troppo cocente, è un fatto di umiltà, se l’aspettativa è troppo alta, l’impatto, quando crolli, è devastante».
Questo porsi obiettivi minimi è una “saggezza” che gli adolescenti sembrano applicare in tutti i campi: dagli impegni scolastici alle sfide sportive, dalle relazioni familiari a quelle amicali a quelle sentimentali… meglio non esporsi troppo, il mondo è un luogo fin troppo ustionante.
Mi viene in mente l’intuizione di Michelangelo per cui l’errore dell’uomo non è quello di fissarsi obiettivi troppo alti e rammaricarsi per non averli raggiunti, ma porsi traguardi troppo bassi e vivere la tristezza che scaturisce proprio dal raggiungerli.
Quando l’uomo punta a un livello più basso della sua statura, è fin troppo facile raggiungerlo e questo porta inevitabilmente a un’amara malinconia: c’è sempre una disperazione latente nella sazietà come aveva intuito il cardinale Biffi parlando della società bolognese.
Qualche studente annuisce, Michelangelo ha fatto centro, altri continuano a sostenere che credersi o crederci troppo è sempre un rischio eccessivo e a niente giova citare l’antico detto dei greci: kalòs kìndinos, il rischio è bello. Sono prudenti questi ragazzi, ma è solo uno schermo protettivo che erigono automaticamente all’inizio, desiderosi di superarlo, sempre se accompagnati.
Qualche segno c’è, si apre qualche crepa nel muro ma è difficile inoculare fiducia a questi cuori feriti, però, anche in extremis, qualche reazione positiva emerge (mancano pochi minuti al termine della lezione, la campanella suona sempre sul più bello, proprio quando la discussione sta decollando) e Giorgia cita addirittura Johnny Deep: «Gli uomini non desiderano le cose che possono ottenere troppo facilmente».
Splendida provocazione, chiedo se sia davvero del divo di Hollywood, «non so, l’ho letta su Facebook»; mi riprometto di tornarci su questo tema, immenso, del desiderio e mi alzo, il collega dell’ora successivo sta entrando, ma Gregorio sulla soglia mi tira per la giacca e mi fa (è il rockettaro della classe): «Ma lo avevano già detto gli U2: I’m still haven’t found what I’m looking for, non è vero prof?». «Certo, ma tu cosa cerchi?».

Squadra che vince, si cambia

 

Bilanci-squadre-di-calcio-BarcellonaE così anche la Spagna esce dal mondiale, dopo la seconda sconfitta consecutiva, questa volta ad opera del Cile. Viene in mente il malinconico esito dell’Italia del 2010, quando il C.T. Marcello Lippi realizzò un errore doppiamente sciagurato: tornò indietro sulla saggia decisione che nel 2006 lo aveva spinto a dimettersi all’indomani del mondiale vinto, e tornò indietro anche nella formazione della nazionale richiamando il gruppo reduce della vittoria di quattro anni prima. Così, oggi, la Spagna: stesso C.T., stesso gruppo-squadra. Insomma questi ultimi episodi dei mondiali di calcio ci hanno insegnato una cosa, che tornare indietro è impossibile e quindi privo di senso, per cui non è affatto veritiero il detto, nato proprio in ambito sportivo, che recita “squadra che vince non si cambia” e che spesso viene esportato (con uguale perniciosità dunque) anche in altri ambiti, si pensi ad esempio alla politica. Alla luce di questi episodi (ma la serie potrebbe essere molto più lunga) è chiaro invece il contrario: squadra che vince deve assolutamente essere cambiata altrimenti l’insuccesso è inevitabile. L’appagamento, dovuto al successo, porta a “sedersi”, a sentirsi sazi, a perdere fiducia, grinta e speranza, a perdersi e a perdere.

C’è invece un’altra grande narrazione, che non ha a che fare con lo sport, che insegna la saggezza della vita come “cambiamento continuo”, ed è la lezione che scaturisce dal Vangelo e che Papa Francesco ha ben racchiuso nella sua raccomandazione: “il cristiano deve avviare processi, non occupare spazi”. Questa saggezza può valere nel calcio, ma deve essere la regola nella politica, dove l’occupare spazi può facilmente diventare l’anticamera della cosiddetta “questione morale”.

Il modello di riferimento resta sempre Gesù, che già nel primo capitolo del Vangelo più antico, quello di Marco, risponde così al fenomeno della sua fama che subito si diffonde in lungo e in largo: “Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea…” (Marco 1,28-39). Gesù non si ferma al successo raggiunto, ma va “altrove”, sposta sempre il baricentro (quello suo e quindi quello dei suoi seguaci) di qualche grado in modo da non riposarsi, non cadere nella scontatezza della ripetitività.

cenacoloE la paradossalità di Gesù, il suo essere “segno di contraddizione” vale in tutte e due sensi: per lui non solo “squadra che vince si cambia”, ma è vero anche il contrario, per cui “squadra che perde non si cambia”. Per capirlo si deve passare dall’inizio della sua predicazione alla fine della sua avventura terrena, quando, dopo la resurrezione, non appare ad altri uomini, magari migliori di quella squadra degli undici apostoli che certo non avevano dato una bella prova di sé, ma torna proprio da loro, da quegli amici, codardi e traditori. Il segreto di questo gesto paradossale è in quella parola lì, “amici”. In questo caso allora il “tornare indietro” è possibile e acquista un senso profondo, alto: allargare lo spazio della possibilità, restituire all’uomo ferito un’altra occasione di riscatto, dargli quell’iniezione di fiducia di cui tutti gli uomini hanno bisogno, per ritornare sui propri errori e riprovare a superare quegli scogli che a prima vista appaiono invincibili.
Michael_Jordan_Net_WorthChi vince può solo perdere, così come solo se si perde si può vincere, proprio come diceva di sé uno dei più grandi atleti della storia dello sport di tutti i tempi, Michael Jordan: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.
(questo articolo è apparso su Avvenire il giorno 19 giugno 2014)

 

Parole perdute: la parola ai ragazzi

cristo-e-il-giovane-riccoCon la lunga sgroppata sul tema della santità e della felicità siamo arrivati alla fine dell’anno scolastico e allora provo a recuperare le parole perdute partendo da loro, dai miei studenti: quali sono le loro e non le mie parole? Quale la parola che può servire a definirli? Questi 500 ragazzi che ogni settimana mi trovo davanti, lì, seduti tra quei banchi sempre più stretti, chi sono? Cosa pensano? E cosa pensano di se stessi? Forse basta chiedere, e allora sulla lavagna scrivo la frase “Noi giovani siamo:” e invito tutti ad alzarsi e scrivere un aggettivo che possa rappresentarli. All’inizio c’è silenzio, timidezza, imbarazzo, poi qualcuno si alza e la lavagna si riempie, anche di sorprese.. Impossibile raccoglierli tutti questi aggettivi, ma ciò che colpisce è il segno negativo che accompagna la maggior parte degli aggettivi: distratti, distaccati dalla realtà, superficiali, stanchi, arrabbiati, ipnotizzati, assenti, dubbiosi, senza valori, soli, abbandonati, alternativi, illusi, omologati, stupidi, insicuri, curiosi, sinceri e diretti, demotivati, menefreghisti, maleducati, egoisti, incompresi.
Non c’è da stare allegri insomma. Non parole perdute, ma parole lucide che dicono di esistenze perdute o quasi. Gli faccio presente che il giudizio che si sono auto-inflitti è quasi tutto nero, senza luce (meno male che qualcuno ha parlato di curiosità e sincerità) e che forse hanno esagerato, ma non vogliono cambiare idea, a quei pugnali che li trafiggono inchiodandoli alle loro responsabilità ci rimangono aggrappati, forse per far crescere la rabbia mista a rassegnazione (parola assente anche se c’è quel “demotivati” che tanto gli assomiglia) che sembra essere il mix esplosivo o implosivo dei ragazzi nati a cavallo tra il secondo e il terzo millennio.
Guardano la lavagna, con quello sfondo nero che sembra prevalere sulle scritte bianche e parlano tra loro, confermandosi in questo spietato auto-identikit ed io non posso non pensare alla responsabilità di noi adulti, educatori e genitori, penso a mio figlio di 19 anni che senza dubbio è un tipo “curioso” (in tutti i sensi di questa parola), e mi chiedo: dove abbiamo sbagliato?
Mi viene in mente il giovane ricco del Vangelo che se ne va triste senza lasciarsi coinvolgere da Gesù. Triste, una parola che è assente ma terribilmente presente in quell’elenco, ma forse ciò che è rimasto assente è un’altra cosa: lo sguardo d’amore di Gesù che, scrive Marco, “fissatolo, lo amò”, che non garantisce la fine della tristezza, come l’epilogo dell’episodio suggerisce, ma è quella luce che tutti i giovani, di sempre, desiderano.

Papa in cattedra

 

Papa ombrelli2Proprio quando le difficoltà che trovavo nello spiegare ai miei studenti cosa significhi essere santo ed essere Papa stavano diventando insormontabili ecco che mi è venuto in soccorso l’aiuto più sorprendente: il Papa stesso. Sabato 10 maggio è stato proprio Papa Francesco a invitarci alla sua “lezione”: in piazza San Pietro eravamo più di trecentomila provenienti da tutti Italia per un incontro-festa per la scuola e l’educazione organizzato dalla CEI.

Esponenti di tutta la scuola italiana, di ogni ordine e grado, statale e paritaria, al suono della campanella e dopo aver fatto l’appello (ovviamente non per nominativo ma per aree geografiche), abbiamo parlato e ascoltato la parola del Sommo Pontefice in un incontro articolato in una prima fase in cui alcune scuole hanno raccontato la propria esperienza e in una seconda in cui il Papa ha spiegato i motivi per cui ama la scuola ricordando il suo passato di studente e di docente.

Lo spirito è stato quello impegnativo della festa e non del facile lamento, ma il momento più significativo è stato forse quello prima del suono della campanella, quando il Papa è entrato in quell’aula speciale rappresentata dal colonnato del Bernini e si è messo a girare “tra i banchi”: ci ha messo più di mezz’ora a fare su e giù per tutta la piazza e per via della Conciliazione (gremita fino a Castel S.Angelo) scendendo spesso dalla papa-mobile per salutare e abbracciare di persona alcuni dei suoi studenti. Il discorso che poi il Papa ha rivolto è stato intenso e stimolante, bellissima la citazione dell’antico detto africano “per educare un bambino ci vuole un villaggio”, ma la vera “lezione” che tutti hanno potuto apprendere è stata in quell’abbraccio che ha ricordato a tutti che la trasmissione del sapere non è un fatto necessariamente an-affettivo come ogni tanto si è tentati di credere. I ragazzi questo già lo sanno, ma i docenti, ed erano tanti insieme a me tra quei trecentomila, forse faranno qualche fatica in più ad apprendere la dura lezione che nasce dalla gestualità del Papa. Il punto è che insegnare (“segnare dentro”) non è un fatto di parole ma piuttosto di gesti, non è un fatto intellettuale ma sensuale, in cui tutti i cinque sensi sono messi in gioco: è un gioco serio, l’educazione, e se l’educatore non si mette in gioco la magia non scatta. Ho visto gli occhi dei miei studenti che erano con me, anche loro abbracciati e salutati dal Papa mentre faceva la sua lezione, e ho pensato che la magia era scattata; una bella “ricarica” per me, in questa fine d’anno quando si è tutti un po’ provati, e insieme una grande responsabilità.
(Apparso su Avvenire il 21 maggio 2014)