Si è già detto molto dell’ultimo film di Christopher Nolan Dunkirk (perchè non Dunkerque non si sa). Aggiungerò la mia impressione (dovrò rivederlo per passare da impressione a opinione) e vorrei concentrarmi sul contenuto della storia, del resto la forma mi sembra ineccepibile, l’ennesima conferma del virtuosismo del regista inglese.
Vedendo come si sviluppava la storia raccontata da Nolan, che poi è la storia dei fatti accaduti sulla spiaggia di Dunkerque nel 1940, ho pensato a due cose: alla nostra situazione di oggi, nostra di noi europei, e al capolavoro di Tolkien Il signore degli anelli.
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Categoria: Cinema
Meraviglia vs. Nichilismo
Meraviglia drammatica e abissale per l’esistente o rassegnazione rispetto all’abisso del nulla: cos’è che oggi ha più presa sul pubblico, quello grande e quello più ristretto della critica? Forse le due strade, quella del “grande pubblico” e quella della critica, si biforcano, a volte lo fanno, ma non ho certezze in merito. Mi è venuto in mente questa dicotomia tra i due abissi (quello consistente della luce e quello spettrale del vuoto) andando a vedere l’ultimo film di Malick, To the wander, che già nel titolo indica la sua direzione “verso la meraviglia” (se ne volete sapere di più leggete il mio pezzo su Malick e Von Trier qui: http://bombacarta.com/2013/07/21/un-film-e-due-registi-estremi/ )
Si dice spesso che il giornalismo “preferisce le tenebre”, descrivendo solo il male che ogni giorno su questo mondo viene compiuto ma il giornalismo, lo ricordava quello splendido giornalista che fu Chesterton, realizza spesso l’effetto opposto della letteratura che riesce a rendere sempre nuove le cose: le rende subito vecchie. Qui invece mi interessa l’arte e in particolare l’arte narrativa (letteratura e cinema in primis) che appunto sta lì a rendere tutto nuovo, soprattutto il quotidiano. Dunque, chi vince? quale dei due abissi? Secondo me il verdetto, che sembra essere a favore del buio (gira ancora la fola che il poeta sia un dannato, un maledetto..), non è poi così scontato.. la folta schiera dei poeti “luminosi” sta lì a dimostrarlo: dallo stesso Chesterton a Whitman, da G.M.Hopkins a P.Kavanagh, da C.Milosz a J.Twardowski a R.Thomas… e non è per caso la stessa letteratura italiana nata con la poesia di lode, il cantico delle creature di San Francesco d’Assisi?
Ri-vedersi (nei panni di una bionda)
Ho voluto ri-vedere Nei panni di una bionda di Blake Edwards, l’avevo visto a cinema nel 1991 quando uscì e non mi ricordavo quasi niente della storia, tranne il particolare che all’epoca Repubblica lo stroncò perché antiabortista. Tanto bastava perché mi si riaccendesse la curiosità e me lo sono andato a rivedere: non è stato facile trovare il dvd (nella libreria dove l’ho trovato mi hanno detto che era l’ultima copia in tutta Roma) e, in effetti, mi è tornato il buonumore anche per la maestria comica del vecchio Blake.
La storia è, apparentemente, un po’ complessa ma vale la pena raccontarla: Steve Brooks è un bel ragazzo che fa il creativo pubblicitario, inguaribile donnaiolo, lo vediamo per pochi minuti, infatti viene subito ucciso da tre perfide sue ex-amanti. Si presenta, tutto nudo, davanti al creatore il quale, con doppia voce (Dio è uomo e donna, proprio come si intuisce dalla Genesi), lo rispedisce sulla terra dicendogli che la sua condotta è stata tale che potrà guadagnarsi il paradiso solo se riuscirà a trovare una donna che gli voglia bene, altrimenti lo aspettano le fiamme dell’inferno. Parli del diavolo e ne spuntano le corna, ed ecco che si presenta Satana in persona che, da buon moralista, obietta che questa seconda possibilità è troppo misericordiosa e che “bisognerebbe dare una lezione” a questo mascalzone di macho-maschilista e fa la sua proposta: trasformiamolo in donna, così l’impresa sarà più difficile, altrimenti Steve col suo “fascino maschio” non ci metterà molto a trovare una povera ragazza a cui mentire solo per farsi amare. Come fa spesso, anche stavolta Dio sta al gioco del diavolo e voilà, ecco Steve trasformato in una bionda mozzafiato (l’attrice Ellen Barkin), da qui il titolo originale del film, Switch, “scambio”. Questo è solo il prologo, mentre il resto del film, molto divertente, racconta l’affannosa ricerca di Steve che nei panni di una bionda (Amanda è il nome, quanto mai significativo, che si è scelto spacciandosi per la sorellastra del defunto sciupafemmine) dovrà fare per cercare una donna sulla terra che possa dire di volergli bene. Niente da fare, ovviamente: tutte le appartenenti al gentil sesso che Amanda va a ricercare tra le mille amicizie (per lo più “ex-vittime”) di Steve hanno soltanto parole assai poco gentili nei confronti di “quel lurido porco”. L’unico che sembra soffrire della notizia della morte di Steve è Walter, l’amico del cuore che però ha il difetto di essere un maschio mentre la chiave per entrare in paradiso è il “sì” di una donna. Per Steve-Amanda la strada sembra senza via d’uscita, e infatti il diavolo si riaffaccia andando di notte a turbare i sogni del malcapitato/a già pregustando la sua nuova vittima. Ma il diavolo, si sa, fa le pentole e non i coperchi, ed ecco il colpo di scena: dopo una notte di botte, risse e alcool (Amanda è una donna fisicamente, ma “dentro” continua ad essere quel maschiaccio di Steve) Walter e Amanda finiscono per dormire nello stesso letto e la mattina dopo Amanda si rende conto che nella notte “qualcosa” è avvenuto. Ovviamente prende a pugni il buon Walter dandogli dello “approfittatore e stupratore” ma sta di fatto che Amanda si ritrova incinta. La sua reazione è così dura che Walter ad un certo punto le propone di abortire (“come Steve avrebbe fatto”, dice, “e avrebbe suggerito certamente di fare, subito”) ma Amanda rifiuta: forse è proprio questo bambino “l’unica ragione per cui non sto già arrostendo all’inferno”. Amanda è ormai decisa a tenere il bambino e va avanti sino alla fine anche quando, al momento del parto, i medici riscontrano una serie di difficoltà e l’avvertono che c’è anche la possibilità di morire sotto i ferri. Walter ci riprova: “Ne possiamo parlare, se vuoi”, ma Amanda, ormai entrata con tutte le scarpe nel suo nuovo “essere”, glielo spiega: “Non sai cos’è avere una vita dentro di te, lo sento che sta crescendo, che è vivo ed è vivo perché io vivo. E quando sarò morta una parte di me continuerà a vivere…è una cosa meravigliosa ed è senz’altro un grande miracolo” e infine gli chiede: “Tu ti ci vedresti come padre?”. La risposta di Walter è positiva anche se questo gli costerà la perdita del lavoro (quante volte ancora oggi l’avere un figlio equivale a perdere il lavoro?).
Il finale ha il suo colpo di scena che però gli spettatori hanno cominciato a intuire nel momento in cui il protagonista ha cominciato a trasformarsi dallo squallido e debole donnaiolo Steve alla dolce e forte Amanda: il bambino nasce ed è una femmina; nel momento in cui l’ostetrica la pone sul petto della madre, Amanda con un filo di voce può finalmente dire: “Sai una cosa Walter? Lei mi vuole bene!”. Può morire in pace, le porte del paradiso gli si spalancano davanti. Nell’ultima scena Walter porta la sua bambina di 4 anni sulla tomba di Amanda (la scritta sulla lapide recita “Amanda Brooks: a great guy and a wonderful woman”) e si sente la voce maschile-femminile di Dio che chiede ad Amanda se ha deciso se vuole diventare un angelo o un’angela custode per sua figlia ma Steve-Amanda vuole prendere tempo perché ci sono troppi aspetti positivi sia nell’essere uomo che essere donna; per fortuna ha tutto il tempo che vuole per decidere, anzi tutta l’eternità.
Non penso di dover commentare questo film misconosciuto e divertente, come tutti di Blake Edwards, che come si suol dire, si commenta da sé. E’ un film che parla di amore e lo fa con un buonumore, due cose che, ha affermato Ratzinger e Ferrara opportunamente ricorda ad ogni piè sospinto, gli occidentali hanno bandito come eretiche. Al che mi viene in mente quello che disse tanti secoli fa San Giovanni Crisostomo (lo ricorda Timothy Radcliffe nel suo splendido “Amare nella libertà” di recente pubblicato) il quale un giorno stava predicando sul sesso e notò che alcuni arrossivano, cosa che lo riempì di indignazione al punto da esclamare ed arringare al perbenista: “Perché ti vergogni di una cosa onorabile? Perché arrossisci di una cosa immacolata? Ciò è proprio degli eretici”.
(questo articolo è stato pubblicato su Il Foglio il 9 aprile 2008)
Un leone in Vaticano
(il presente articolo è apparso il 21 marzo 2006 suIl Foglio)
Come ogni anno anche quest’anno si è svolta in Vaticano l’assemblea plenaria del pontificio consiglio delle Comunicazioni sociali, dal 13 al 18 marzo. All’interno della manifestazione una giornata è sempre dedicata al cinema e viene coronata dalla visione di un film nella sala privata del Palazzo San Carlo, sede del consiglio. E’ la sala in cui è entrato più volte da spettatore di film Papa Giovanni Paolo II. Giovedì scorso, ho partecipato anch’io alla giornata e alla visione del film scelto per quest’anno e che sono stato invitato a presentare: “Le cronache di Narnia” tratto dall’omonima saga fantasy dello scrittore inglese C. S. Lewis. Mi sembra una scelta significativa, per questo ne scrivo. L’invito era giustificato da un recente saggio sullo scrittore e il suo bestseller, da me realizzato insieme a Paolo Gulisano, per le edizioni SanPaolo. Il pubblico era numeroso e ricco di cardinali (ne ho contati almeno quattro: Lopez Rodriguez, Vlk, Agrè e Backis) vescovi e prelati. Il Papa non c’era, ma non aveva certo bisogno di vedere questo film per conoscere e apprezzare Lewis e mi sono sorpreso io stesso del fatto di essermi trovato quasi costretto, nelle poche parole introduttive, a citare per due volte l’enciclica “Deus Caritas est”. Quando il Papa afferma che quello di cui l’uomo ha bisogno è “un cuore che vede” (n. 31) coglie una delle profonde “morali” della favola raccontata da Lewis. Nel romanzo e nel film noi vediamo una bambina, Lucy (cioè “luce”) che, attraverso un armadio, entra in un mondo apparentemente diverso ma che poi si scopre essere semplicemente il nostro ma a un grado superiore di intensità e profondità. Lucy lascia l’Inghilterra dilaniata dalla Seconda guerra mondiale per entrare in Narnia, che è anch’essa un mondo in guerra e il passaggio attraverso l’armadio sta a significare che è nella quotidianità più comune (un armadio chi lo nota?) che si cela la meraviglia e il mistero, dell’esistente. Non serve cercalo, basta vederlo, saperlo vedere. Basta avere un cuore che vede, un cuore semplice come quello di un bambino. I bambini sono naturalmente fantasiosi e aperti allo stupore, capaci cioè di vedere il mondo ogni volta come se fosse la prima volta; in questo senso la fantasia, parola che deriva dal greco “fos”, luce, non è quindi un’evasione alienante ma una visione più profonda e intensa della realtà. La seconda citazione dall’enciclica che mi è venuta spontanea nel presentare questo film è la frase di Sant’Agostino a sua volta ripresa da Benedetto XVI: “Si comprehendis, non est Deus”, “se lo comprendi non è Dio”. E’ l’idea che soggiace all’invenzione del personaggio del leone Aslan, protagonista assoluto dell’intera saga di Lewis. Aslan, in turco “leone”, è figura Christi (muore e risorge per la redenzione di Narnia e il perdono di Edmund) ma è anche una formidabile immagine di Dio. Il leone è l’animale per eccellenza non addomesticabile; Aslan non è mai “a disposizione”, non è mai sotto il controllo di qualcuno; è lui che sceglie di darsi se e quando vuole. Simbolo della grazia che si può solo ricevere, non acquisire, Aslan sceglierà di donarsi e di morire (in una scena ritagliata su quella della passione di Cristo) in riscatto per il bambino “peccatore” Edmund. Dio, proprio come un leone, non lo puoi “comprendere”, non lo puoi bloccare, ingabbiare in un’idea, come Aslan egli irrompe nella vita degli uomini (come racconta Lewis nei suoi testi autobiografici) e appare e sta dove meno te lo aspetti; non è mai fisso in un posto. Cristo, proprio come Aslan, sceglie la strada paradossale della morte e del sacrificio rivelando così il volto più autentico di Dio, quello dell’amore. Solo allora Dio lo puoi trovare, fisso, in un luogo e quel luogo è la croce, lì Dio è croci-fisso. E mentre dicevo queste parole il mio pensiero andava all’ultimo film che prima di questo era stato visto, alla presenza di Giovanni Paolo II: “The Passion” di Gibson. L’ultimo film di Wojtyla e il primo di Ratzinger sono film “vicini” (entrambi hanno al centro il mistero pasquale) ma diversi per l’approccio: più scolpito nella roccia e fisico il primo e più raffinato, “intellettuale” il secondo, una diversità che sembra rispecchiare quella dei due Papi. Continuità e discontinuità. Il Papa polacco, nel pieno dell’autunno del suo pontificato, un autunno di sofferenza e dolore, quasi si specchiava nello “spettacolo” dell’Uomo dei dolori in tutta la sua crudezza. Oggi, sotto il Papa tedesco, un film che racconta la rinascita di un mondo ferito, che riemerge, grazie al sacrificio di Dio, da un inverno rigido come la morte, che sembrava senza fine e “senza Natale” come dice il fauno Tumnus alla bambina Lucy, “figlia di Eva”. Sarà la fede di Lucy, insieme all’agape di Aslan a trionfare sulla magia della Strega Bianca perché esiste “una magia più grande” e questa magia “caritas est”.
Cinema e politica, un rapporto complicato
Cinquant’anni fa negli USA veniva pubblicato un romanzo di Edwyn O’Connor, The Last Hurrah, che riscosse anche un discreto successo vincendo tra l’altro l’Atlantic Prize. Due anni dopo, oltre alla pubblicazione italiana (con lo stesso titolo, per i tipi della collana Medusa Mondadori), uno dei più grandi registi nordamericani ne trasse un film dolente e struggente, aggiungendo un altro capolavoro alla sua lunga lista: il regista era John Ford, il titolo del film (non western) sempre lo stesso, L’ultimo urrà e il protagonista un bellissimo Spencer Tracy.
Il romanzo, l’unica opera di O’Connor tradotta in italiano, non più ripubblicata, è oggi introvabile così come il film che non è mai stato trasferito né su VHS né su DVD. A distanza di 50 anni questa storia invece non ha perso il suo smalto. E’infatti uno dei pochi film nell’intera storia del cinema che parla direttamente della politica e che lo fa senza cadere nel rischio, molto diffuso non solo nel nostro paese, del moralismo ipocrita.
La storia è semplice: Frank Skeffington, anziano sindaco di una città non meglio identificata del New England, si presenta all’elezioni per il suo ultimo tentativo di essere rieletto ma dopo una dura campagna non ce la farà: il suo ultimo ruggito da vecchio leone non sarà sufficiente e verrà battuto dagli “uomini nuovi” che poi tanto nuovi non sono affatto. Kevin Mc Cluskey, il giovane e candido candidato antagonista, è quello che oggi si potrebbe definire un “piacione”: un bella testa vuota, ma molto telegenica e, soprattutto, supportata dall’appoggio di una bella cordata di uomini rappresentanti dei cosiddetti “interessi forti”. O’Connor e Ford ci mettono pure lo scontro tra la ricca e algida comunità wasp, che si muove arrogante dietro il piacione e quella cattolica, più povera e popolare, di matrice irlandese e italiana, da cui il vecchio sindaco proviene e anni prima aveva raggiunto il potere, rompendo le uova nel paniere alle vecchie consorterie protestanti; ma questo è un dettaglio di “colore” che poco aggiunge al nodo centrale della vicenda raccontata. Il vecchio Skeffington rappresenta la politica dei “vecchi tempi”, fatta ancora di campagne elettorali “porta a porta”, con comizi e bagni di folla, strette di mano, veglie funebri e tante raccomandazioni: il suo tempo è passato ma ancora non se ne è accorto. McClusky, non si tuffa invece nella tumultuosa e sporca folla, ma si lascia piuttosto intervistare, insieme all’amabile famiglia, di continuo dai diversi canali televisivi, canali nuovi, vie nuove della comunicazione, che invece trovano l’anziano sindaco impreparato e maldestro. La cosa interessante del film è che sotto un certo punto di vista, quello morale, Skeffington appare più disinvolto e più “compromesso” di McClusky, che sembra “incapace” anche di fare il male.
Un altro, anzi un’altra O’Connor, Flannery, contemporanea ma non imparentata con l’omonimo Edwyn, pur non occupandosi mai di politica nei suoi racconti, ha qualcosa da dire, di molto interessante, sulle stesse tematiche morali e spirituali. Morta nel 1964, Flannery O’Connor era una piccola (e malata) donna del sud degli Stati Uniti che diceva di scrivere quello che scriveva non “malgrado” ma proprio “perché cattolica”. Non era una persona abituata alla sottigliezze e il suo parlare era “sì sì, no no”: una volta affermò, con toni non proprio da dialogo ecumenico, che se l’eucaristia era solo simbolo (come per molta parte dei protestanti) allora per lei poteva “andare al diavolo”. I racconti della O’Connor non parlano direttamente di politica ma possono rivelarsi molto utili, anche per il lettore italiano di oggi, perché lo costringono ad ampliare ed approfondire la sua visione del mondo. Per lei scrivere è molto vicino all’esperienza del dipingere e lo scrittore bravo deve fare come il pittore, osservare, fissare, contemplare. Inoltre la O’Connor, da brava cattolica, ha due nemici giurati: il moralismo e il manicheismo. Per lei ogni racconto è la descrizione dell’opera della Grazia nei territori del diavolo (e spesso sono davvero infernali gli scenari umani rappresentati nei suoi racconti). Quindi niente storielle a lieto fine, il suo scrivere “da cattolica” non vuol dire costruire trame edificanti ma approfondire il mistero della realtà, penetrare la realtà attraverso una discesa “ad inferos”; questa è la lezione della O’Connor che ha compreso bene come il rischio dell’uomo contemporaneo è lo spiritualismo, il moralismo e il sentimentalismo (e forse sta qui, nel sentimentalismo, la ragione della strana assenza di buoni film sulla politica).
Si sente forte l’eco della lezione di San Tommaso, con la sua rivalutazione del concreto e del sensibile, e di Karl Rahner il quale, tra l’altro, ha scritto che “come esistono dipinti che non si possono appendere in chiesa, in quanto non hanno una tematica espressamente cristiana, oppure si può prevedere che non sarebbero capiti dal grosso della comunità, eppure nella loro sostanza umana…sono in realtà molto più “cristiani” di un quadro privo di carica umana che rappresenta San Giuseppe, così avviene anche nel campo della narrativa”. Si sente forte, infine, una nota simile a quella di Benedetto XVI che nella sua enciclica sulla carità, sfidando l’impopolarità, è arrivato a dire che “l’amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore.”.
E’ quanto mai attuale la lezione della O’Connor, specie nella sua critica al manicheismo che per la scrittrice americana non è solo cattiva teologia ma anche pessima letteratura: “La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa.”. Lo stesso dicasi per la politica che non è certo fatta per le anime belle ma per le belle persone, come in fondo è il vecchio Frank Skeffington (soprattutto quando, nella versione “fordiana”, ha il volto roccioso di Spencer Tracy). Il vecchio sindaco, sconfitto ma non domo, rappresenta una modo di fare politica ormai superato dai tempi: la televisione ha ormai preso il posto della piazza ed ora premia di più sporcarsi le mani non solo tra la gente ma anche nei salotti che contano.
C’è un’aria di perdita dell’innocenza nel film di Ford, la stessa aria che si respira nello splendido Quiz Show di Robert Redford, ambientato nello stesso torno di tempo, la fine degli anni ’50. Scritto sulla base dei ricordi di Richard Goodwyn (membro attivo dello staff di John Kennedy), questo film racconta la storia del processo che rivelò la corruzione presente nel più popolare dei quiz televisivi e la fine di uno dei tanti “sogni americani” (anch’esso quindi molto attuale per noi italiani ai tempi di “piedi puliti”). Ma lo schianto peggiore per il sogno americano fu senz’altro ciò che accadde qualche anno dopo (e che il mondo intero vide, ancora una volta, attraverso l’occhio spietato della televisione) a Dallas il 22 novembre 1963, una di quelle date che potrebbero far pensare romanticamente alla fine, per l’America, dell’età dell’innocenza.
In quella stessa data, dall’altra parte dell’oceano, nel suo appartamento di Cambridge, moriva discretamente come era vissuto, lo scrittore inglese C.S.Lewis (sì, l’autore delle Cronache di Narnia). Anche lui, come Flannery O’Connor, non si era occupato mai direttamente di politica, ma a leggere oggi i suoi saggi (anche questi molto difficili da reperire in Italia) il lettore potrebbe ricavarne stimoli utili anche per ampliare la sua visione sul mondo e quindi anche sulla politica. In particolare, in un saggio dedicato alla letteratura fantastica, Other Worlds, pubblicato proprio nel 1963 dalle Paoline ed oggi ingiustamente obliato, Lewis, con il suo solito gusto per il paradosso, affermava di arrivare a preferire un’anima brutta al comando di una comunità civile, rispetto al rischio insito nella “purezza” dell’anima bella: “Se è inevitabile avere un tiranno,” scrive Lewis, ““un barone ladrone” è assai meglio di un inquisitore. La crudeltà del barone può talvolta assopirsi, la sua cupidigia saziarsi; e poiché intuisce confusamente di far male, potrebbe anche pentirsi. Ma l’inquisitore, che scambia la propria crudeltà e sete di potenza e di terrore con la voce celeste, ci tormenterà all’infinito perché ci tormenta con l’approvazione della propria coscienza, e i suoi impulsi migliori gli appariranno come tentazioni”.
(il presente articolo è apparso su Il Foglio il 2 gennaio 2007)